Prefazione dell’autore
C’è sempre un momento nella vita in cui ci si accorge del fascino di qualcosa che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi e che non eravamo mai stati capaci di percepire appieno. Questo mi è successo dopo tanti anni di studi, esperienze e docenza niente meno che su percezione e colore; ma non è mai troppo tardi.
Pochi mesi prima che uscisse il mio primo libro, Perception Design, scritto insieme con il collega Aldo Bottoli, mi resi conto della fascinazione che avevo subito quando mi ero accorto che le textures non erano solamente quella serie di puntini o trattini variamente disposti delle trattazioni gestaltiche o quelle argomentazioni complesse e difficili da reperire dei testi di Psicofisica. Mio “accorsi” delle textures durante una passeggiata su una spiaggia della Riviera di Levante, dove vivevo.
Raccogliere e collezionare ciottoli di spiaggia era un mio hobby e mi aveva sempre affascinato come il movimento del mare potesse levigare e arrotondare marmo, arenarie, porcellana, cotto, fino a creare delle forme d’uovo quasi perfette, pastiglie tonde o forme allungate e dritte simili ad acciughe.
Percorrevo la spiaggia fuori dalla stagione balneare, variegata dai riporti annuali di ripascimento, a testa bassa per trovare i ciottoli più interessanti; un giorno che ho provato a fotografarli mi sono accorto che stavo passeggiando su una texture!
Con questo “quaderno” vorrei portare all’attenzione dei progettisti quanto sia frequente “imbattersi” nelle textures, quali siano le loro caratteristiche e le variabili e quanto possa essere produttivo per un progetto il prenderne in considerazione il loro utilizzo. Ho scritto “imbattersi” perché il fenomeno percettivo delle tessiture è spesso sotto i nostri occhi inconsapevoli e non appena ci si guarda attorno con maggiore attenzione ci si accorge di quante ce ne siano, rendendosi conto che esse sono una caratteristica peculiare dell’ambiente naturale, dunque del paesaggio così detto, ma anche di quelli antropizzato e artificiale, proprio quello dove le texture possono essere create e introdotte per creare scene dal fascino particolare, dunque paesaggi (qui intesi nell’accezione psicofisica), che possono diventare elementi del wayfinding design. Scene e configurazioni grafiche con diverse tipologie di textures per creare paesaggi in grado di facilitare il nostro orientarci all’interno di contenitori architettonici articolati, complessi e sviluppati su molti livelli come può essere, per esempio, un grande policlinico.
Faccio notare che il nostro sistema percettivo (in sintesi: quando vedo qualcosa, come lo interpreto e come agisco di conseguenza e perché), sviluppatosi nei nostri antenati in ambiente temperato e boscoso, quindi riferito all’ambiente naturale, teoricamente, ma quasi certamente, non si è mai trovato ad affrontare l’orientamento su diversi livelli. Infatti ancora oggi, navigando su un certo livello, non consideriamo affatto le configurazioni e le organizzazioni spaziali che abbiamo al livello sopra di noi, né quello al di sotto di noi. Ci concentriamo solo ad orientarci nel livello in cui ci muoviamo, rimandando la stessa operazione al momento in cui ci troveremo (tramite scale o ascensori) a un diverso livello. Basta questo per capire quanto è facile perdersi in strutture grandi e complesse e perché è nato il wayfinding design. Ma è un altro discorso che verrà affrontato in altra sede. Ho voluto accennare perché nel “mondo” del colore e della percezione cognitiva tutto è meravigliosamente concatenato.
Chiedo quindi scusa agli scienziati per questo mio contributo che non si pone come divulgazione semplificata di chi non ne ha pieno titolo, ma come mediazione tra il mondo scientifico e quello del progetto, a creare un ponte mancante. Un intento di stimolo per i progettisti che, secondo me, oggi hanno più che mai necessità di una cultura più articolata e aggiornata sull’immenso e complesso campo della percezione.
Capitolo 1
La texture o tessitura
Nell’affrontare questo tema ho attinto dalla Psicofisica le sole basi di partenza. La Psicofisica, forse l’unica neuro-scienza che abbia approfondito in modo estremamente puntuale e articolato il tema delle textures, ha affrontato, tra l’altro, gli aspetti di soglia, valutando, con esperimenti di laboratorio su soggetti umani, quali fossero le caratteristiche (features) di una texture affinché si potessero verificare la rilevazione (detection), la segregazione e segmentazione, la rivelazione dei bordi (edges), dove certe caratteristiche di texture finiscono, la rilevazione dei limiti di demarcazione tra una texture e un’altra (boundaries), eccetera.
Sono state sperimentate, con severi protocolli scientifici, le capacità di rilevazione di una texture al variare di alcune caratteristiche come la luminanza, il colore, il contrasto, l’orientamento e la densità dei textons (gli elementi componenti di una texture), mentre su macachi veniva verificato quali fossero i neuroni coinvolti nelle diverse fasi di rilevazione.
Con questo credo di aver espresso in modo riduttivo e sicuramente parziale, quanto si è studiato e sperimentato su questo tema.
Perché questa affascinante branca delle neuroscienze si è occupata (e si occupa) tanto delle textures?
Provo a dare una risposta in due tempi.
Primo tempo:
Gli elementi di discriminazione di una scena sono: colore, forma e struttura superficiale (ovviamente deve esserci luce).
Ciò significa che per essere in grado di comprendere, di dare un senso a ciò che stiamo vedendo in un certo momento (percezione cognitiva), le nostre aree visive discriminano queste tre caratteristiche che possono dare salienza ai diversi elementi della scena (ciò che stiamo osservando), aiutandoci a distinguerli l’uno dall’altro, dunque a valutare lo spazio intorno a noi e la nostra posizione e distanza da ciò che ci circonda. Se la struttura superficiale è uno dei tre elementi di discriminazione della scena, ciò non può che dimostrare la sua importanza.
Secondo tempo:
Normalmente si parla di struttura superficiale fine, quindi di una caratteristica, forse “la caratteristica” di ogni superficie che si offra alla nostra osservazione. Consideriamola per il momento nella sua massima “finezza” e sempre collegata a un oggetto.
Negli oggetti artificiali che trovate intorno a voi, anche in questo stesso momento, potete verificare, possibilmente muniti di una lente di ingrandimento, quanto siano rari gli oggetti che presentino una superficie perfettamente priva di tessitura, ovvero di una ben che minima ruvidezza apparente ai nostri grossolani sensi; nel caso in questione sono coinvolti la vista (con lente di ingrandimento) e il tatto.
Osservate con la lente un tasto del vostro computer, un laminato plastico apparentemente liscio e altre superfici artificiali; noterete che è sempre presente una tessitura fine. A questi livelli, la struttura superficiale fine viene espressa sotto la denominazione di Gloss. Questa caratteristica della superficie viene comunemente definita come “brillantezza”, in quanto si tratta di una misurazione che si riferisce a uno standard di riflessione della luce da parte di una lastra di vetro lucido nero, insomma quasi di una superficie specchiante. Strumenti detti glossmetri o glossimetri consentono di stabilire, e in che misura, una superficie possa essere considerata lucida o meno lucida oppure opaca.
Nel momento in cui abbandoniamo questa estrema finezza per passare a considerare “una struttura rilevabile come sistema di elementi simili tra loro” (textons) posta sopra alla superficie e facente parte di essa, ecco che ci troviamo di fronte a quella che comunemente chiamiamo texture; la “chiamiamo” perché la rileviamo (detection) considerandola come un unico insieme, quasi un altro “oggetto” (segregazione) e distinguendola dalla superficie della quale fa parte (segmentazione). È facile, per concludere questo “secondo tempo”, rendersi conto che, a prescindere dagli oggetti artificiali (considerate tali, per esempio, anche le pareti interne ed esterne della vostra abitazione), negli oggetti naturali una certa tessitura di superficie è sempre presente. Per questa ragione è uno dei succitati elementi per discriminare una scena.
Arrivati a questo punto avrete certamente compreso che la rilevazione (detection) di una texture è una questione di scala. E se consideriamo, per esempio, di osservare la battigia di una spiaggia sabbiosa che viene solitamente pareggiata dall’andirivieni delle onde, essa ci apparirà come una superficie caratterizzata da una tessitura molto fine, quasi non rilevabile, ma la scena cambierà se ne osserveremo una porzione da circa 50 cm di distanza, da dove potremo rilevare i granelli che formano la sabbia oppure accorgerci che la sabbia è addirittura formata da piccoli sassolini arrotondati del diametro medio di 2 millimetri.
Quindi la rilevazione di una texture è una questione di scala e di distanza di osservazione.
Questa trattazione si riferirà soprattutto alle textures che, all’interno di una certa variabile di distanza di osservazione, abbiano un rapporto di scala tale da essere facilmente rilevabile, dunque da prendere in considerazione nel design.
Prima di continuare sarà bene però fornire qualche definizione e qualche concetto sulla percezione.
Capitolo 2
Definizione di texture o tessitura; altre definizioni utili
Innanzi tutto alcune definizioni di texture, così come riportate da Lucia Ronchi (Lucia R. Ronchi – La scienza della visione dal punto di vista delle scene naturali – Fondazione Giorgio Ronchi).
Texture
Le definizioni di texture sono molteplici. Per esempio, tradotto come “struttura superficiale fine”, viene definita come:
- un insieme di elementi geometrici, con una loro distribuzione spaziale, regolare o irregolare, piana o tri-dimensionale e con determinate caratteristiche salienti (features) che ne inquadrano la configurazione (patterning) con riferimento al processo visivo (orientamento, frequenza spaziale, contrasto, colore, rugosità ecc.);
- una variazione continua, connessa allo schema spaziale della superficie;
- una caratteristica saliente (feature) che definisce la superficie;
- una struttura che si contrappone all’uniformità;
- una proprietà definita statisticamente (Landy e Graham, 2003) che impegna sia la visione locale, sia la visione globale;
- un’astrazione percepita, l’attributo di un campo con un numero imprecisato di componenti, (non-enumerable), ecc.”
Psicofisica
Gustav Theodor Fechner (1801-1887), il padre storico della Psicofisica, la definiva come la scienza esatta delle relazioni funzionali fra corpo e mente. In una definizione più aggiornata e vicina a quanto ci interessa direttamente, la si può considerare come la scienza delle risposte psicofisiologiche dell’essere umano alle diverse configurazioni dello stimolo. Uno stimolo sul quale tanto si è scritto e sul quale ancora si studia e si dibatte è quello luminoso, ovvero provocato dalla luce emessa da una sorgente (Sole, lampada, candela…) oppure da un oggetto illuminato.
La Psicofisica è nata quindi nell’ambiente della Psicologia, ma nel suo percorso evolutivo si è arricchita e trasformata con il necessario apporto della Fisiologia e della Fisica. Sarebbe stato infatti poco corretto scientificamente aprire una grande ricerca sulle varie risposte dell’essere umano alla stimolazione luminosa senza conoscere che cosa è la luce (Fisica) e senza conoscere l’anatomia e le funzionalità del corpo umano e soprattutto quelle del cervello (Neurobiologia e Neurofisiologia).
È infatti nel cervello che hanno luogo quelle complesse sensazioni che chiamiamo “visione delle forme e dei colori”, sensazioni subito elaborate dal nostro atteggiamento nei confronti della situazione, dalla nostra storia, dalla nostra cultura, dalle nostre attese, dalla motivazione e dagli altri nostri sensi congiuntamente, dando luogo alla percezione cognitiva.
Percezione
La percezione è un’operazione cerebrale mediante la quale la coscienza prende contatto con l’oggetto esterno utilizzando una molteplicità di sensazioni, importante tra le altre, la vista.
È definibile percezione l’attività cerebrale nella quale il campo di osservazione (scena) viene interpretato cognitivamente, quindi riconosciuto oppure relegato, nell’analisi delle sue componenti di apparenza (forma, colore e struttura superficiale), nella categoria del non conosciuto, dunque del nuovo, dell’appreso. Nel momento in cui il cervello trova una spiegazione di ciò che sta vedendo (nell’atto del riconoscimento, della comparazione con il conosciuto o nell’apprendimento del nuovo) si perfeziona l’atto percettivo.
Scena
Configurazione particolare di forme, luce, colori, tessiture, suoni, odori, temperatura che costituisca un insieme coerente e caratterizzato e per questo possa essere riconosciuta e distinta da altre anche avendo subito determinate trasformazioni o variazioni entro una certa soglia. La lettura e l’apprendimento di una scena, seppure fortemente pilotati dalla vista, è un processo polisensoriale.
La scena è un elemento percettivo di riconoscibilità dell’ambiente, quindi di orientamento. In Psicofisica per scena si intende ciò che rientra nel campo di osservazione visiva; il termine è finalizzato all’analisi delle sue componenti e delle sue variabili (forme, colori, strutture superficiali, illuminazione, eccetera) al fine di stabilire le reazioni psicologiche e fisiologiche degli osservatori, determinando in tale modo valori di soglia, tempi di reazione agli stimoli, comportamenti, neuroni e aree cerebrali coinvolte nei diversi stadi percettivi.
Segregazione e segmentazione
Le operazioni di segregazione e segmentazione sono alla base dei meccanismi di comprensione di ciò che osserviamo. In linea di massima, la segregazione è l’individuazione di una forma compiuta o l’individuazione di più punti o elementi in coerenza tale da poter costituire un insieme. La segmentazione è il conseguente atto di raggruppamento in un insieme e la discriminazione dello stesso dagli altri elementi della scena che, a quel punto, andranno a far parte dello sfondo o di un certo altro piano di profondità.
Osservando questi disegni di M. C. Escher (1898 – 1972), ci accorgiamo che il cervello segrega con facilità il segno “cane” o “grifone”. L’informazione contenuta ci invita al gioco dell’opponenza: se il “colpo d’occhio” ci fa segmentare il gruppo dei cani bianchi, quelli neri diventano fondo indispensabile perché ciò avvenga, quindi ne perdiamo l’identità formale e viceversa.
Nella prima immagine Escher ci complica il processo di interpretazione alternando l’orientamento delle file. Si riescono a percepire cani bianchi e neri insieme (rilevazione locale della texture) soffermando l’osservazione sulla coda del cane bianco centrale e superando così l’antagonismo percettivo figura-sfondo, ma come “allarghiamo”, esplorando tutta l’immagine (rilevazione globale della texture), perdiamo nuovamente uno dei due gruppi. Una cosa da notare è come il cervello, per comprendere l’immagine, si orienti preferibilmente sul bianco, sul più chiaro (ancoraggio alla maggiore luminanza), oppure sulla tinta invece che sul colore neutro.
Nella terza immagine risulta, infatti, quasi difficile riconoscere i grifoni neri su fondo giallo. Questo è un fatto che si potrebbe definire biologico; risulta evidente come i colori cromatici forniscano indicazioni prioritarie per la sopravvivenza; il nero (colore acromatico o neutro) è letto come assenza di luce, dunque di ombra profonda, di spazio vuoto.
Capitolo 3
L’evoluzione della visione e della percezione; caratteristiche percettive delle scene naturali
L’ambiente naturale ha avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo delle capacità visive e percettive. L’essere umano è stato in grado di sopravvivere proprio grazie all’atto percettivo.
Il saper riconoscere in tempo situazioni potenzialmente pericolose o portatrici di vantaggi ha affinato la capacità percettiva dei nostri progenitori. Questa capacità, necessaria e vitale, si è sviluppata grazie al processo di adattività all’ambiente naturale.
“È convinzione della scienza che gli organismi viventi, nella loro evoluzione, abbiano sviluppato processi e strategie biologiche strettamente associate al loro ambiente (L. Ronchi cita Corth, 1983) e che le caratteristiche dell’ambiente influiscano sulla struttura neuronale del sistema visivo“ (L. Ronchi cita Rudermann, 1997). Lucia Ronchi, sempre citando Corth, sottolinea che “per svariati milioni di anni i primati sono stati esposti alla luce diurna filtrata dalla vegetazione delle foreste; questa luce ha una distribuzione spettrale che presenta un massimo a 550 nm, proprio in corrispondenza del massimo della curva di efficienza visiva.”
Caratteristiche percettive delle scene naturali
Quinte di profondità
Si può notare che in un campo di osservazione i diversi elementi si configurano come appartenenti a diverse quinte.
Possiamo definire quinta di profondità il luogo di diversi elementi della scena posti a una medesima distanza media dal punto di osservazione in cui ci troviamo.
Le quinte di profondità ci forniscono l’informazione necessaria per renderci conto della nostra posizione all’interno del contesto ambientale. Il nostro spostarci all’interno del contesto nel quale ci troviamo, porterà variazioni coerenti nella configurazione delle quinte di profondità. Queste variazioni di configurazione saranno alla base del nostro apprendimento del contesto, fornendoci la capacità di riconoscere il luogo e di orientarci.
Gradiente di tessitura
Una caratteristica dell’ambiente naturale è quella di apparirci sempre come un insieme di elementi e superfici dotate di una certa tessitura.
Data una certa tessitura considerabile mediamente omogenea (per esempio un prato), uno degli indizi che ci aiutano a intuire la distanza tra noi e un qualsiasi elemento della scena è l’addensarsi della tessitura contemporaneamente all’apparente “ridursi” degli elementi che la compongono. Possiamo chiamare questa compressione apparente che aumenta con la distanza come gradiente di tessitura.
Gradienti di salienza, di tinta, di sfumatura, di luminanza
Salva una rarissima monotonia in natura e una altrettanta difficile nell’ambiente artificiale, ogni scena ha uno o più punti cospicui, più in risalto rispetto agli altri, che potremo quindi definire salienti; elementi che il cervello prenderà in maggiore considerazione, in quanto di notevole ausilio per l’apprendimento del luogo e, di conseguenza, per l’orientamento e la riconoscibilità in occasioni successive.
Le diverse distanze tra gli elementi salienti e le caratteristiche degli stessi sono alla base della lettura e comprensione della configurazione di una scena. Si parla di gradiente di salienza in quanto questa si modifica coerentemente a seconda dei nostri spostamenti all’interno del luogo. Le caratteristiche di tinta, sfumatura e luminanza degli elementi di una scena sono spesso dipendenti dalla loro distanza dall’osservatore.
Permeabilità percettiva
Le piccole porzioni che una quinta lascia intravedere della quinta che nasconde ci forniscono una certa possibilità di previsione e di ricostruzione percettiva della parte di quinta nascosta grazie al completamento amodale.
Questa nostra capacità di ricostruire e riconoscere non utilizzando uno o più sensi (da qui amodale), ma con l’immaginazione alimentata dall’esperienza ciò che è in varie sue porzioni nascosto da uno o più ostacoli visivi è un’attività percettiva innata.
A seguito di ciò possiamo asserire che questa nostra capacità si sia sviluppata e adattata alla configurazione tipica dell’ambiente naturale boscoso che potremmo definire permeabilità percettiva; lo sguardo può penetrare in parte e l’immaginazione farà il resto. Un cancello in ferro battuto è un esempio di manufatto a elevata permeabilità percettiva; impedisce il passaggio, è ben visibile, ma lascia che lo sguardo possa esplorare liberamente la scena che in parte nasconde; grazie al completamento amodale il cancello viene eliso percettivamente.
Profondità breve
Una tradizionale soluzione per eliminare il senso di oppressione di un muro di cinta di un cortile è di farlo ricoprire da una pianta rampicante. L’impermeabilità percettiva del muro viene quasi annullata; lo spessore del fogliame della pianta rampicante (si tratta comunque di una texture naturale) e gli effetti chiaroscurali che creano le sue foglie ci danno l’illusione di una certa permeabilità percettiva. Questo suggerisce al nostro sistema percettivo l’attivazione del completamento amodale seppure in assenza degli stimoli visivi necessari, cioè di qualche porzione visibile al di là delle foglie del rampicante.
Il confinamento nei confronti di tutto ciò che sta al di là di quel muro apparirà più accettabile, meno invalicabile, meno oppressivo. La profondità breve può trasformare un muro invalicabile in un bosco accessibile e infinito.
Gli interior designer sanno bene quanta profondità possa dare a un ambiente anche piccolo uno scaffale pieno di libri e oggetti; i suoi trenta centimetri circa di capienza hanno la caratteristica percettiva della profondità breve. In linea di massima una parete con una certa tessitura risulta più accettabile di una parete assolutamente uniforme perché suggerisce figura e sfondo, dunque una profondità
Questo farebbe pensare che un muro rifinito a rinzaffo risulti più gradevole di uno ad arenino fine. Se ciò non è vero è perché la qualità della superficie è un fattore estetico influente e anch’esso consolidato da un confronto tra le superfici a tessitura naturale e le possibilità di lavorazione della cultura artigianale.
Dopo questa affermazione vi sarete convinti che io detesti l’intonaco a rinzaffo; lo confermo. Nei Piani del colore che ho redatto è tassativamente proibito in quanto pessima espressione come texture, allontanante, difensiva e “gratta-bambini”!
Possiamo ipotizzare che una certa attivazione del completamento amodale si attivi anche quando la profondità breve si riduce, così che una superficie, verticale oppure orizzontale che sia, ci appaia dotata di una certa permeabilità e di una tessitura fine tale da ridurne l’aspetto di artificialità, avvicinandone la percettibilità a quella degli elementi naturali. Profondità breve può essere dunque la definizione di quella sensazione di permeabilità percettiva (anche se non sussistente) fornitaci da un certo rapporto chiaroscurale di una texture su scala adeguata.
Le immagini di superfici naturali dimostrano la gradevolezza percettiva portata dalla profondità breve. Bene tenerne conto nel progettare pavimentazioni per interni pur tenendo in considerazione che a una maggiore omogeneità e finezza della tessitura chiaroscurale corrisponderà una maggiore facilità di deambulazione ma che, in sua assenza, ci si troverebbe in difficoltà come su certe pavimentazioni resilienti di colore azzurro, sconsideratamente lucidate a effetto specchiante ancora presenti in qualche ospedale.
È bene ricordare che le diverse frequenze della luce che arrivano ai nostri occhi inducendo la creazione di sensazioni cromatiche, quando identificano un oggetto o una superficie, non vengono messe a fuoco nella fovea (punto di maggiore acuità visiva della retina) nello stesso modo. Guarda caso il verde è il colore dominante dell’ambiente naturale, dove lo sguardo è attento dai sei metri a scendere verso l’osservatore. Una pavimentazione azzurra, non perché ricorda l’acqua o il cielo, risulta “più lontana dal piede”. Una pavimentazione rossa risulterà più vicina. I colori adatti per la deambulazione (soprattutto di soggetti in difficoltà)? Il grigio medio cromatico o acromatico e i derivati attenuati dell’arancione, del giallo e del verde giallastro.
Colore
È la definizione che diamo a una nostra specifica sensazione cerebrale. Questa sensazione è causata dall’azione congiunta della luce con le caratteristiche atomiche della superficie degli oggetti. L’interazione della luce con la materia determina la qualità, la quantità e il modo in cui la luce, selettivata dalla superficie dell’oggetto, viene da essa emessa verso i nostri occhi. Un oggetto illuminato emette quindi luce selettivata sia che esso sia opaco o lucido. La luce selettivata darà luogo, per tramite dell’occhio e del cervello, alle sensazioni cromatiche. Il bianco e il nero sono sempre sensazioni visive, sono quindi colori, colori neutri o acromatici però, in quanto privi di tinta.
Capitolo 4
Caratteristiche percettive della texture
L’individuazione e la valutazione della tessitura di una superficie non può prescindere dalla distanza di osservazione; al variare della distanza di osservazione interverrebbero molte variabili di rilevazione e valutazione, rendendo priva di significato qualsiasi categorizzazione.
Basti pensare, per esempio, alla tessitura costituita dagli steli d’erba di un prato; in una osservazione ravvicinata la tessitura si presenterebbe non fine, impura, disordinata e disomogenea, ma avremmo probabilmente consapevolezza del fatto che si tratti di una tessitura naturale, mentre un prato osservato da una certa distanza ci farebbe valutare la tessitura come fine, ordinata e omogenea e in caso di ottime imitazioni, potremmo non essere in grado di valutare se si tratta di una tessitura naturale o artificiale. I finti prati sintetici insegnano, se non fosse che il verde è spesso sbagliato perché i produttori raramente si sono presi la briga di girare per un prato con un colorimetro alla mano.
Distanza di rilevazione e di valutazione
Si conviene perciò che le valutazioni di una tessitura debbano avvenire in condizioni di osservazione di prossimità e, come si fa per valutare correttamente il colore di una superficie, per mezzo di un isolatore da traguardo, quindi in modo apertura. (nota 1)
In relazione all’analogia possibile tra colore e tessitura per quanto concerne il modo di osservazione, credo si possa affermare che i modi di presentazione di una tessitura sono tre:
Modi di presentazione di una texture
Texture oggetto
La texture oggetto è vista e valutata in quanto appartenente all’oggetto stesso; difficile quindi fare astrazione da valutazioni emancipate dai significati e dalle caratteristiche dell’oggetto stesso. Da considerare che un oggetto, solitamente, viene visto non isolato, ma inserito in un contesto che ne determinerà, su quella specifica scala di osservazione, certe varianti visivo-cromatiche ed effetti percettivi. L’oggetto potrà anche essere isolato nella maniera utilizzata dalla fotografia specializzata che riesce a decontestualizzarlo proponendocelo su di un fondale privo di ombre e di confini, in pratica come sospeso nel nulla.
Texture superficie
La tessitura superficiale è quella vista e valutata concentrando l’osservazione su di una porzione della superficie dell’oggetto ovvero nel tentativo di astrazione cognitiva dell’oggetto in quanto tale; entrano in gioco però alcune caratteristiche variabili della superficie come trasparenze, colore, lucentezza e poi illuminazione, ombre, eccetera.
Texture apertura
Probabilmente la modalità più corretta e neutra ovvero emancipata dalle variabili anzidette. La texture è visibile e valutabile isolando una piccola porzione della superficie dell’oggetto attraverso un foro praticato in uno schermo di cartoncino (isolatore); l’oggetto o la superficie dovranno essere a opportuna distanza dall’isolatore. Rispetto alla valutazione di un colore in modo apertura, qui c’è un problema. Per valutare un campione di colore (si legga in nota 1) bisogna mettere a fuoco sui bordi del foro, così ché esso non appaia più tale, ma un bollo colorato sulla stessa superficie del cartoncino. Per quanto riguarda invece la valutazione di una texture, mettere a fuoco sui bordi del foro significherebbe mettere la texture fuori fuoco. Il fuoco ottico deve andare sulla texture, ma questo metterà a disagio perché, in visione binoculare, il foro tenderà a “duplicarsi”. Bisognerà dunque traguardare con un solo occhio.
(nota 1)
Ricordo al lettore ciò che già scrissi a proposito del modo di presentazione del colore, in quanto ritengo che si possa, analogamente, parlare di modo di presentazione della texture. A proposito di colore, si deve considerare il modo con il quale la luce proveniente da un oggetto ci fornisce la sensazione cromatica, ovvero il modo in cui un colore si presenta alla nostra visione e valutazione.
1) colore oggetto
Il colore oggetto è visto e valutato in quanto appartenente all’oggetto stesso; difficile quindi fare astrazione da valutazioni emancipate dai significati e dalle caratteristiche dell’oggetto stesso. Da considerare che un oggetto, solitamente, viene visto non isolato, ma inserito in un contesto che ne determinerà, su quella specifica scala di osservazione, certe varianti visivo-cromatiche ed effetti percettivi. L’oggetto potrà anche essere isolato, nella maniera utilizzata dalla fotografia specializzata che riesce a decontestualizzarlo proponendolo su di un fondale privo di ombre e di confini, in pratica come sospeso nel nulla.
2) colore superficie
Il colore superficiale è quello visto e valutato concentrando l’osservazione su di una porzione della superficie dell’oggetto ovvero nel tentativo di astrazione cognitiva dell’oggetto in quanto tale; entrano in gioco però alcune caratteristiche variabili della superficie come trasparenze, tessitura superficiale, lucentezza e poi illuminazione, ombre, eccetera.
3) colore di apertura
Le valutazioni psicometriche di laboratorio, in Psicofisica, vengono generalmente espletate con il colore di apertura, evidentemente in quanto il colore visibile e valutabile nella modalità più corretta e neutra ovvero emancipata dalle variabili anzidette. È da sottolineare inoltre che con la valutazione del colore di apertura si riduce la discrepanza tra luminanza e brillanza. Il colore di apertura è visibile e valutabile isolando una piccola porzione della superficie dell’oggetto attraverso un foro praticato in uno schermo (cartoncino grigio) e mettendo l’occhio a fuoco sul bordo del foro; l’oggetto dovrà essere a opportuna distanza dallo schermo. Si dovrà avere la sensazione di osservare non un foro, ma un cerchio uniformemente colorato sulla superficie stessa dello schermo.
Distanza di osservazione
Per quanto riguarda la determinazione di quale sia la distanza di osservazione così detta “di prossimità”, dobbiamo considerare due diverse situazioni di relazione tra un osservatore e una superficie che abbia caratteristiche di tessitura.
Texture nella scena – La prima situazione da considerare è che la superficie appartenga all’ambiente nel quale l’osservatore si trova e vada quindi a costituire un elemento della scena. Che si tratti di una superficie orizzontale, inclinata o verticale, si può convenire che la distanza di prossimità sia in media di circa 160 cm.
Texture nell’oggetto – La seconda situazione è che la superficie con caratteristiche di tessitura appartenga a un oggetto di dimensioni e peso tali da poter essere impugnato e brandeggiato agevolmente dall’osservatore. La valutazione della tessitura avverrà a una distanza media di circa 40 cm.
Bisogna considerare però che qualsiasi aggregato di elementi simili, anche in condizioni di disomogeneità, pur avendo i singoli elementi grandi dimensioni, se osservato da una distanza sufficiente, può apparire come una tessitura. Un piccolo aggregato di case osservato da una distanza di 10 km in orizzontale o una grande città osservata dalla verticale e da pari distanza, appariranno come tessiture.
Potremmo dunque già distinguere due macro-categorie di tessiture:
Le tessiture intrinseche e le tessiture apparenti
Le tessiture intrinseche sono quelle rilevabili in osservazione prossimale come effettive strutture superficiali fini. Possiamo ritenerle quindi caratteristiche fisiche proprie della superficie siano esse strutturali, applicate (per es. pittura, stampa) oppure ricavate (per es. fresature, goffrature, eccetera), anche se per queste ultime l’aggettivazione “fini” può risultare compromessa.
Le tessiture apparenti sono invece quelle formate da un aggregato di elementi con determinate similarità tra loro e con una certa densità tali da apparire come una texture. La particolare ricchezza di segnale visivo di una texture apparente è che, nella maggior parte dei casi, è formata da elementi a loro volta caratterizzati da una tessitura intrinseca.
Risulta immediata una sostanziale differenza tra le due e riguarda la rilevazione, ovvero la possibilità per l’osservatore di attuare segregazione e segmentazione.
La rilevazione delle tessiture intrinseche è solo questione di trovarsi a un’opportuna distanza di osservazione e la loro caratteristica è intrinseca, cioè sono sempre tessiture superficiali fini anche quando ci appaiono come superfici perfettamente uniformi perché magari le osserviamo da una distanza eccessiva.
La rilevazione delle tessiture apparenti è anch’essa questione di distanza e di prospettiva di osservazione, ma è di carattere fortemente percettivo. Le textures apparenti, infatti, non hanno valori intrinseci di superficie, in quanto si tratta di aggregazioni di singoli elementi simili, dunque “esistono” solamente se il punto di osservazione e la distanza sono favorevoli e se la “superficie coinvolta” è sufficientemente vasta per essere rilevata e “isolata” dal resto della scena come texture. “Un’astrazione percepita, l’attributo di un campo con un numero imprecisato di componenti…” questa è l’ultima delle possibili definizioni di texture (che ho riportato più sopra), forse quella che si addice meglio alle tessiture apparenti soprattutto nell’essere definita come “astrazione percepita”.
A questo punto risulterà subito chiaro che se è vero che nel naturale e nell’artificiale la tessitura intrinseca è una caratteristica comune “delle cose” più che un’opzione possibile, è anche vero che le tessiture apparenti sono un mondo vastissimo di opportunità percettive e che forse sono più affascinanti delle prime per le loro genesi, per la loro cangianza percettiva e soprattutto perché formate da elementi, la superficie dei quali è probabilmente già caratterizzata da una propria tessitura fine intrinseca.
Le textures apparenti sono quindi tessiture che contengono altre tessiture.
Il loro fascino, che fa soffermare lo sguardo e l’interesse e che desta certe emozioni, è la loro ricchezza di segnale caratterizzato da una coerenza tale da non apparirci come “rumore visivo”, ma come “indispensabile percepito” per comprendere e apprezzare ciò che ci circonda.
Per non rimanere troppo nel teorico e nelle categorizzazioni, basta pensare alle fronde di un grosso albero e alla tessitura offerta dalle sue foglie per comprendere quanto le textures apparenti siano portatrici delle identità delle cose. Come si potrebbe parlare di tessitura intrinseca del mare o, peggio ancora, dell’acqua del mare? L’estrema cangianza delle textures offerte dall’acqua è la dimostrazione che si tratta di apparenza. La tessitura apparente della superficie del mare ci fornisce gli indizi delle sue condizioni. Il cielo leggermente frastagliato quasi in effetti chiaroscurali sulla sua superficie ci indicherà che il mare è calmo, mentre la più evidente tessitura di onde frangenti ci indicherà un mare mosso. Potrà sembrare banale, ma le condizioni del mare non sono segnalate dalla sua forma, sostanzialmente delineata dal disegno della costa (sempre la stessa in ogni condizione) e dall’orizzonte e nemmeno dal colore, che dipende dalle condizioni del cielo, ma dalla sua tessitura di superficie, quella apparente, l’unica possibile. Concludo questa piccola galleria di esempi, facilmente immaginabili anche senza fotografie, con l’esempio del “cielo a pecorelle”, una tessitura tradizionalmente indicativa di tempo piovoso imminente.
Un’altra caratteristica percettiva comune tra textures e colore è la loro “invisibilità percettiva”. Ne siamo tanto avvolti e siamo tanto abituati a queste due caratteristiche con le quali percepiamo il mondo esterno (quello intorno a noi) da non esserne consapevoli coscientemente. Però c’è una differenza; mentre una certa dominante cromatica, un certo colore inconsueto ci scuote, ci emoziona e ci porta a riferire l’esperienza (…il cielo era rosso fuoco…) una certa tessitura apparente, pur provocando in noi gli stessi effetti non viene riferita come texture, ma citando i suoi componenti aggregati (…a terra c’era una moltitudine di foglie secche dai caldi colori autunnali…), oppure con denominazioni specifiche (pavimento in seminato alla genovese, piastrellatura, tessuto a pois, parquet, truciolare di legno, spiaggia di ciottoli, maglia di lana, campo di frumento, tetto in lastre di ardesia…). Eppure nessuno di questi “oggetti” sarebbe riconoscibile e categorizzabile se non fosse identificato nel suo essere una texture; perché di texture si tratta e di textures apparenti come la stessa colonna di testo che state leggendo.
Capitolo 5
Neurofisiologia della texture
Mi rendo conto dell’azzardo nel titolo di questo capitolo, credo tuttavia che possa sintetizzare la concisa ed elementare analisi delle implicazioni neurofisiologiche nella percezione delle textures che intendo proporre. Questo premesso, iniziamo a considerare ciò che deve elaborare il cervello per “vedere” un oggetto singolo.
I primi dati arrivano dagli occhi, dalle rètine degli occhi dove i coni, in visione diurna (fotòpica), si attivano in misura maggiore o minore a seconda della luminosità di una certa lunghezza d’onda della luce emessa dall’oggetto illuminato. Questi dati, forniti dai coni, vengono trasmessi ed elaborati da altre cellule visive della rètina (cellule orizzontali, bipolari, amacrine e gangliari…) e inviati ai nuclei genicolati laterali attraverso gli assoni delle cellule gangliari (nervo ottico). Qui la mappatura dell’immagine viene ancora analizzata da altre cellule e trasmessa alla corteccia visiva primaria (V1 e V2) dove si trovano molti tipi diversi di cellule specializzate per l’orientazione, che si attivano se riconoscono nella configurazione fornita, angoli, curve, linee inclinate secondo certe angolazioni, fino a poter definire i bordi che delineano l’oggetto (pensiamo che questo oggetto sia per esempio la foglia di un albero). Altre di queste cellule specializzate sono in grado di attivarsi segnalando l’eventuale movimento delle singole parti dell’oggetto e la direzione dello spostamento.
Questi dati vengono poi elaborati da altre cellule che definiscono meglio le forme individuate (cellule non-blob) e contemporaneamente da altre ancora (cellule blob), che forniscono diverse sensazioni a seconda della lunghezza d’onda dominante delle superfici interne ai bordi individuati dell’oggetto (colore o sensazione cromatica). I dati convergono (area visiva V4) ed ecco che “vediamo” l’oggetto (la foglia in questione).
Il cervello svolge quindi un lavoro impressionante per renderci visibile una foglia, rendercela riconoscibile come “sempre la stessa” anche se si muove e attribuirle una serie di colori (per es. tonalità e sfumature di verde). Basterà dunque immaginare il lavoro del cervello per renderci capaci di ammirare la chioma di una grande quercia al vento, foglia su foglia, ramo su ramo, per considerare quella cerebrale un’attività oserei dire mostruosa.
Ma non è finita. Infatti, mentre osserviamo la grande quercia, non solo il cervello gestisce le nostre funzioni vitali (frequenza cardiaca, pressione arteriosa, respirazione adeguate alle circostanze…) e fa in modo che si mantenga l’equilibrio anche se stiamo muovendo piccoli passi intorno all’albero, ma elabora continuamente la nostra posizione in quello spazio, le condizioni del suolo, gli ostacoli in vicinanza, gli eventuali pericoli in avvicinamento.
E non è ancora finita perché, con molta probabilità, sta elaborando profondi pensieri sulla nostra vita, sta facendo bilanci, sta programmando cosa fare, cosa dire, come comportarsi quando qualcun altro ci dovesse dire ciò che pensiamo ci potrebbe dire, in una sequenza di ipotesi e contro-ipotesi estremamente complesse che richiamano avvenimenti memorizzati e visualizzano diversi volti e le loro espressioni, evocano i suoni di voci conosciute, fanno nascere emozioni. Eppure, dopo la passeggiata, ci sentiamo più sereni, rilassati e non certo perché “il verde è riposante” (può esserlo solo per la vista).
Nessuno ha mai riferito di sentirsi stressato per aver ammirato la chioma di una quercia al vento; è naturale. Infatti è naturale! Fa parte della nostra caratteristica di esseri umani, il poter elaborare, senza alcuna fatica, così tanti stimoli visivi; certamente non a rischio di “stancarci il cervello”, al contrario di certi nostri pensieri con i quali amiamo spesso ossessionarci.
Come già detto, gli esseri umani hanno sviluppato le loro capacità visuo-percettive all’interno di ambienti naturali boscosi. Dunque se si accetta di definire come texture apparente la chioma di un albero frondoso, ne consegue il considerare l’ambiente naturale come caratterizzato dalle textures, sia intrinseche che apparenti, e la nostra conseguente adattività (adeguamenti neurofisiologici) alla visione e percezione delle stesse.
Sedersi davanti a una parete rivestita di laminato plastico di un unico colore e osservarla per alcuni minuti, farebbe sentire chiunque a disagio. Il cervello, da un punto di vista visivo, più che riposarsi, subirebbe un certo stress da deprivazione di stimoli e per il continuo lavoro di fotorecettori dello stesso tipo (sensibile alla lunghezza d’onda del colore della parete). Se la parete fosse di colore bianco? Qualcuno potrebbe affrettarsi a chiedere. Ancora peggio, risponderei, i coni retinici stressati sarebbero proprio tutti e per vedere cosa? Il cervello, rassegnato a quella visione di “campo vuoto” ci porterebbe all’introspezione oppure all’addormentamento, ma sempre con il forte disagio di chi si rende conto di trovarsi “confinato”, come in cella. Nessuno desidererebbe quella situazione per pensare o per dormire, perché genererebbe stress e ansia.
Il cervello non riposa mai, come sapete nemmeno quando si dorme. Pensateci, sarebbe un vero guaio, almeno per certe funzioni vitali.
Il cervello si riposa con il cambiamento. La natura cambia sempre intorno a noi e anche noi siamo in costante cambiamento (crescita e invecchiamento); il cambiamento è un fattore biologico, ineluttabile e in molti casi per noi necessario per il benessere. Forse per questo ci si affeziona a una vecchia cartella di pelle, che
ha cambiato colore e che porta su di sé le gradevoli rughe e cicatrici dell’uso. Non si è rovinata, ma è semplicemente invecchiata, proprio come noi. Forse per questo a chi va in vacanza per riposarsi (questo è sempre lo scopo dichiarato e desiderato) vengono offerte molte e diverse possibilità di attività alternative a quelle di tutti i giorni. Ci sono persone che in vacanza “lavorano” di più di quando lavorano, eppure si riposano. La spiegazione di questo paradosso delle vacanze sta proprio nella necessità cerebrale del cambiamento. Qualcuno ha definito l’ozio come un’arte. Infatti è difficile da gestire alla lunga, in quanto il cervello “scalpita”.
Capitolo 6
Categorizzazioni delle textures
Nel momento in cui ci si propone di affrontare un tema percettivo, caratterizzato quindi da una componente psicologica, è quasi inevitabile cercare di “organizzare” il sistema tematico in categorie o tipi. Lo scopo non è quello di imporre una schematizzazione da introiettare (peggio, da imparare o far imparare a memoria), ma di analizzare le possibili varianti del sistema per rendersi consapevoli delle stesse, individuando così una piattaforma cognitiva utile per il progetto. Una texture è caratterizzata dai suoi componenti, i textons, le possibili varianti dei quali determineranno le diverse categorie delle tessiture.
Variabili dei textons: Tipologia, forma, dimensione, colore, aggregazione, orientamento, densità.
Textures - CATEGORIZZAZIONE
- TEXTURES INTRINSECHE
- TEXTURES APPARENTI
Ciascuna delle quali può essere:
- Naturali spontanee, quando offerte dal mondo naturale senza alcun apporto dell’uomo (chioma frondosa di albero, prato polifito misto, spiaggia sabbiosa, ecc.)
- Naturali antropizzate, quando offerte dal mondo naturale manipolato dall’uomo (lastre di marmo, di pietra, tavole di legno, ecc.)
- Artificiali decorative, se applicate secondo un modulo ripetibile, questo è il “rapporto”; un buon rapporto è tale quando le dimensioni del modulo e l’aggancio visivo di continuità della tessitura sono meno discriminabili (pavimento in seminato di marmo, piastrelle ceramiche, parquet di legno, decorazioni stencil, spatolati, spugnati, stoffe a pois, a losanghe, ecc.)
- Artificiali strutturali/funzionali quando risultanti da particolari strutture realizzate per finalità non decorative, ma di sostegno o costruttive oppure quando create per rispondere funzionalmente a specifiche necessità (muro di mattoni, muro di pietre a secco, tralicci metallici, ecc.), (impugnature, superfici goffrate antisdrucciolo, ecc.)
- Artificiali percettive, se risultanti dall’aggregazione visiva, quando resa possibile, di elementi, strutture, manufatti similari in special modo se osservate da lontano (colonnati, colline terrazzate per coltivazioni, pennelli frangiflutti realizzati con massi o elementi specifici, ecc.)
Ciascuna delle quali può essere:
- Pure quando i componenti appartengono alla stessa tipologia.
- Non pure quando i componenti sono di tipologie differenti.
e anche:
- Ordinate quando i componenti sono allogati secondo un ordine, densità media e orientamento discriminabili.
- Non ordinate quando i componenti sono allogati secondo nessun ordine, densità media e orientamento discriminabili.
e anche:
- Omogenee quando i componenti sono uguali o molto simili per almeno due caratteristiche tra: forma, dimensione, colore.
- Non omogenee quando i componenti sono uguali o molto simili ma per una sola caratteristica tra: forma, dimensione, colore.
Categorizzazioni e variabili ipotizzabili
Al fine di poter confrontare rapidamente le diverse categorie e varianti tra loro, ogni variabile è denominata da un codice arbitrario. Oppure inventatevi voi come categorizzare.
- INS1: Texture intrinseca | naturale spontanea | pura | ordinata | omogenea
- INS2: Texture intrinseca | naturale spontanea | pura | ordinata | non omogenea
- INS3: Texture intrinseca | naturale spontanea | pura | non ordinata | omogenea
- INS4: Texture intrinseca | naturale spontanea | pura | non ordinata | non omogenea
- INS11: Texture intrinseca | naturale spontanea | non pura | ordinata | omogenea
- INS22: Texture intrinseca | naturale spontanea | non pura | ordinata | non omogenea
- INS33: Texture intrinseca | naturale spontanea | non pura | non ordinata | omogenea
- INS44: Texture intrinseca | nat. spontanea | non pura | non ordinata | non omogenea
- INA1: Texture intrinseca | naturale antropizzata | pura | ordinata | omogenea
- INA2: Texture intrinseca | naturale antropizzata | pura | ordinata | non omogenea
- INA3: Texture intrinseca | naturale antropizzata | pura | non ordinata | omogenea
- INA4: Texture intrinseca | naturale antropizzata | pura | non ordinata | non omogenea
- INA11: Texture intrinseca | naturale antropizzata | non pura | ordinata | omogenea
- INA22: Texture intrinseca | naturale antropizzata | non pura | ordinata | non omogenea
- INA33: Texture intrinseca | naturale antropizzata | non pura | non ordinata | omogenea
- INA44: Texture intrinseca | nat. antropizzata | non pura | non ordinata | non omogenea
- IAD1: Texture intrinseca | artificiale decorativa | pura | ordinata | omogenea
- IAD2: Texture intrinseca | artificiale decorativa | pura | ordinata | non omogenea
- IAD3: Texture intrinseca | artificiale decorativa | pura | non ordinata | omogenea
- IAD4: Texture intrinseca | artificiale decorativa | pura | non ordinata | non omogenea
- IAD11: Texture intrinseca | artificiale decorativa | non pura | ordinata | omogenea
- IAD22: Texture intrinseca | artificiale decorativa | non pura | ordinata | non omogenea
- IAD33: Texture intrinseca | artificiale decorativa | non pura | non ordinata | omogenea
- IAD44: Texture intrinseca | art. decorativa | non pura | non ordinata | non omogenea
- IAF1: Texture intrinseca | artificiale strutturale/funzionale | pura | ordinata | omogenea
- IAF2: Texture intrinseca | art. strutturale/funzionale | pura | ordinata | non omogenea
- IAF3: Texture intrinseca | art. strutturale/funzionale | pura | non ordinata | omogenea
- IAF4: Texture intrinseca | art. strutt./funzionale | pura | non ordinata | non omogenea
- IAF11: Texture intrinseca | art. strutturale/funzionale | non pura | ordinata | omogenea
- IAF22: Texture intrinseca | art. strutt./funzionale | non pura | ordinata | non omogenea
- IAF33: Texture intrinseca | art. strutt./funzionale | non pura | non ordinata | omogenea
- IAF44: Texture intrinseca | art. strutt./funzionale | non pura | non ord. | non omogenea
- IAP1: Texture intrinseca | artificiale percettiva | pura | ordinata | omogenea
- IAP2: Texture intrinseca | artificiale percettiva | pura | ordinata | non omogenea
- IAP3: Texture intrinseca | artificiale percettiva | pura | non ordinata | omogenea
- IAP4: Texture intrinseca | artificiale percettiva | pura | non ordinata | non omogenea
- IAP11: Texture intrinseca | artificiale percettiva | non pura | ordinata | omogenea
- IAP22: Texture intrinseca | artificiale percettiva | non pura | ordinata | non omogenea
- IAP33: Texture intrinseca | artificiale percettiva | non pura | non ordinata | omogenea
- IAP44: Texture intrinseca | art. percettiva | non pura | non ordinata | non omogenea
- ANS1: Texture apparente | naturale spontanea | pura | ordinata | omogenea
- ANS2: Texture apparente | naturale spontanea | pura | ordinata | non omogenea
- ANS3: Texture apparente | naturale spontanea | pura | non ordinata | omogenea
- ANS4: Texture apparente | naturale spontanea | pura | non ordinata | non omogenea
- ANS11: Texture apparente | naturale spontanea | non pura | ordinata | omogenea
- ANS22: Texture apparente | naturale spontanea | non pura | ordinata | non omogenea
- ANS33: Texture apparente | naturale spontanea | non pura | non ordinata | omogenea
- ANS44: Texture apparente | nat. spontanea | non pura | non ordinata | non omogenea
- ANA1: Texture apparente | naturale antropizzata | pura | ordinata | omogenea
- ANA2: Texture apparente | naturale antropizzata | pura | ordinata | non omogenea
- ANA3: Texture apparente | naturale antropizzata | pura | non ordinata | omogenea
- ANA4: Texture apparente | naturale antropizzata | pura | non ordinata | non omogenea
- ANA11: Texture apparente | naturale antropizzata | non pura | ordinata | omogenea
- ANA22: Texture apparente | naturale antropizzata | non pura | ordinata | non omogenea
- ANA33: Texture apparente | naturale antropizzata | non pura | non ordinata | omogenea
- ANA44: Texture apparente | nat. antropizzata | non pura | non ordinata | non omogenea
- AAD1: Texture apparente | artificiale decorativa | pura | ordinata | omogenea
- AAD2: Texture apparente | artificiale decorativa | pura | ordinata | non omogenea
- AAD3: Texture apparente | artificiale decorativa | pura | non ordinata | omogenea
- AAD4: Texture apparente | artificiale decorativa | pura | non ordinata | non omogenea
- AAD11: Texture apparente | artificiale decorativa | non pura | ordinata | omogenea
- AAD22: Texture apparente | artificiale decorativa | non pura | ordinata | non omogenea
- AAD33: Texture apparente | artificiale decorativa | non pura | non ordinata | omogenea
- AAD44: Texture apparente | art. decorativa | non pura | non ordinata | non omogenea
- AAF1: Texture apparente | artificiale strutturale/funzionale | pura | ordinata | omogenea
- AAF2: Texture apparente | art. strutturale/funzionale | pura | ordinata | non omogenea
- AAF3: Texture apparente | art. strutturale/funzionale | pura | non ordinata | omogenea
- AAF4: Texture apparente | art. strutt./funzionale | pura | non ordinata | non omogenea
- AAF11: Texture apparente | art. strutturale/funzionale | non pura | ordinata | omogenea
- AAF22: Texture apparente | art. strutt./funzionale | non pura | ordinata | non omogenea
- AAF33: Texture apparente | art. strutt./funzionale | non pura | non ordinata | omogenea
- AAF44: Texture apparente | art. strutt./funzionale | non pura | non ord. | non omogenea
- AAP1: Texture apparente | artificiale percettiva | pura | ordinata | omogenea
- AAP2: Texture apparente | artificiale percettiva | pura | ordinata | non omogenea
- AAP3: Texture apparente | artificiale percettiva | pura | non ordinata | omogenea
- AAP4: Texture apparente | artificiale percettiva | pura | non ordinata | non omogenea
- AAP11: Texture apparente | artificiale percettiva | non pura | ordinata | omogenea
- AAP22: Texture apparente | artificiale percettiva | non pura | ordinata | non omogenea
- AAP33: Texture apparente | artificiale percettiva | non pura | non ordinata | omogenea
- AAP44: Texture apparente | art. percettiva | non pura | non ordinata | non omogenea
Queste appena elencate sono, teoricamente, tutte le possibili varianti tipologiche delle textures (80). Lo sono (e ripeto “teoricamente”) secondo le mie categorizzazioni, se volete arbitrarie, forse di meno rispetto alle possibili varianti effettive, forse infinite. Una ricerca di immagini emblematiche di queste ipotetiche 80 varianti sarebbe stato forse giustamente esplicativa, però molto impegnativa e probabilmente sarebbe risultata stancante visivamente e noiosa percettivamente per chi si fosse appassionato a questa tematica. Lascio quindi a chi sentisse nascere in sé questa passione, lo stimolante compito di trovare le varianti non analizzate nell’ultimo capitolo di questo quaderno o di cercare di categorizzare le textures proposte nelle foto.
La percezione delle textures nella scena
Anche i ricercatori nel campo della Psicofisica asseriscono che la percezione di una scena è assai diversa se il soggetto vi si trova all’interno realmente oppure se la osserva in una rappresentazione o fotografia. Tutti coloro che fanno progetto sanno bene la differenza sostanziale tra la valutazione di un ambiente renderizzato seppure in modo sorprendentemente “fotografico” e quella che si fa quando ci si trova all’interno dell’ambiente realizzato, insomma nella realtà, e non esiste 3D che tenga. Per noi esseri umani è imprescindibile, per una corretta valutazione percettiva, essere consapevoli dello spazio nel quale ci stiamo muovendo e sentire la nostra corporeità (propriocezione) in relazione con l’intorno, con gli oggetti, con le persone con le quali ci relazioniamo. Le textures vanno “scoperte” nella loro effettiva residenza, nella loro genesi data dalla nostra posizione e distanza rispetto ai loro componenti, soprattutto se si tratta di textures apparenti. L’atto percettivo è polisensoriale, occorre perciò “trovarsi sul posto” e nel caso di un oggetto, “toccare con mano”.
Capitolo 7
Il progetto
Affrontare un tema dal titolo “utilizzo delle textures nel progetto” è presuntuoso e impossibile da perfezionare. Lascio dunque alla creatività del progettista e alla luce di quanto già scritto, la possibilità di utilizzare le textures consapevolmente.
Se progettare significa “gettare in avanti”, riuscire a immaginare una certa scena che ancora non esiste, se non nella fantasia, è facile comprendere quanto siano utili una serie di concetti di base sul che cosa si va a fare e perché, una certa metodologia e una certa esperienza. Chi progetta ha studiato e fatto esperienze per sviluppare queste utilità; spesso chi avrebbe assoluto bisogno di questo apporto professionale non ne percepisce la necessità e “si arrangia”. Parlando di interni ciò è lecito; ognuno faccia a casa sua ciò che gli piace in piena libertà di sbagliare con il proprio gusto e il proprio talento, purché non si tratti di interni a uso collettivo come scuole, ospedali, grandi uffici, dove non è assolutamente lecito scegliere sulla “pelle” degli operatori e degli utenti che li utilizzeranno, perché la percezione altrui è cosa da rispettare in quanto coinvolge sia l’aspetto psicologico che quello fisiologico. Questo appena detto vale anche per l’architettura; la qualità dell’ambiente urbano è diritto di tutti e non può sottostare alle scelte arbitrarie delle proprietà. Vale per la forma, per il colore e per la tessitura superficiale. Il progetto opera su questi tre elementi che sono poi, come già detto, quelli attraverso i quali siamo in grado di discriminare una scena.
L’illuminazione
Non si dimentichi però l’illuminazione. Mentre per i progetti di architettura o della loro riqualificazione l’illuminante di riferimento deve essere il Sole e poi si può pensare a come “presentare” l’edificio durante le ore di buio, negli interni una corretta distribuzione e qualità delle sorgenti illuminanti è determinante quanto forma, colore e tessitura superficiale. Se quest’ultima la vogliamo considerare come qualità intrinseca della superficie, si dovrà pensare alla lucidità-opacità degli oggetti (pavimenti, pareti e soffitti inclusi!), si potranno considerare particolari “finiture” visibili e toccabili lavorate con diversi elementi plastici (cioè in rilievo o a scavo) ripetuti come scanalature, bolli piani, convessi o concavi, goffrature, rigature, graffiature, losanghe, ecc. Se la vogliamo anche considerare come caratteristica propria della scena naturale, ecco che possiamo introdurre le textures apparenti sia in esterno che in interno, ricordandoci che le nostre capacità visive e percettive si sono sviluppate e perfezionate proprio nella scena naturale che, come già visto, è caratterizzata dalle tessiture intrinseche e apparenti.
Le pareti, i soffitti, i pavimenti
In molte occasioni alcuni progettisti hanno cercato di portare all’interno di locali pubblici, elementi appartenenti alla scena naturale come pietre e piante a foglia. Alcuni non le hanno introdotte sotto forma di pavimentazioni, piani di lavoro o come grosse composizioni di “verde” all’interno di fioriere, ma hanno cercato citazioni dell’ambiente esterno con manufatti in pietra come muri a secco formati quindi da molte pietre le une abilmente incastrate con le altre e con vere e proprie siepi, piccoli alberi, pareti coperte da rampicanti, ecc.. L’alto livello di qualità che veniva richiesto non ha fatto loro prendere in considerazione l’idea di inserire finti muri o finte piante, con conseguenti difficoltà di impianto e di manutenzione. Non ho potuto avere dati di feedback, ma sono certo che la qualità percettiva (quindi non quella strettamente legata alla finezza dei materiali e all’estetica) sarà risultata ottima. Come non andare volentieri al lavoro se la vostra postazione è separata dalla successiva da una vera siepe come se vi trovaste nel parco? Questi tentativi sono emblematici del concetto, ma non credo siano da considerare come uniche possibilità e nemmeno come esempi del come fare.
Risultando a questo punto chiara l’ingenuità di “risolvere” una stanza con un poster a tutta parete riproducente un muro invisibile tanto è vestito di edera rampicante, è altrettanto chiaro che non è facile risolvere il compito evitando di cadere nella pura decorazione trompe-l’oeil o peggio riducendo gli ambienti a una specie di catalogo di tappezzerie di ispirazione naturalistica. L’importante è avere introiettato il concetto, se volete la missione, di dare agli interni una percettibilità più consona a chi vi soggiornerà per studiare, per curarsi, per lavorare, per relazionarsi con gli altri.
Questo per quanto riguarda le pareti, ma non si dimentichino i soffitti.
I soffitti si sviluppano sugli stessi metri quadrati dei pavimenti che stanno sotto di loro. Questi ultimi, nella planimetria del progetto in bozza, sono sempre martoriati da prove e controprove per cercare di farci stare tutto quanto “ci deve stare” pur assicurando spazi di viabilità e rispetto delle norme di sicurezza. Ai soffitti si pensa sempre poco; spesso vengono contro-soffittati ed ecco apparire sgraziati pannelli a quadrotti (immancabilmente e ineluttabilmente bianchi) interrotti qua e là da plafoniere quadrate che garantiscono gli stessi lux su tutto ciò che illuminano. Le ricerche della psicofisica sul gloom ovvero su quella sensazione deprimente di ambiente malamente illuminato, quasi nebbioso, vennero fatte negli Stati Uniti negli anni in cui si utilizzava diffusamente l’illuminazione a fluorescenza (le impropriamente dette “lampade al neon”). Oggi, con l’avvento dei LED, di certo la luce ha ben altra potenza, ma viene spesso fatto l’errore che quelle ricerche avevano indicato come tale, suggerendo la soluzione ancora oggi valida. Suggerirono luci spot, ovvero che illuminassero solo le piccole aree dove occorreva una forte illuminazione, lasciando non illuminate le altre zone che, sebbene non lo fossero, sarebbero sembrate buie. Nel dubbio di dove sarebbero state le zone da illuminare per estrema flessibilità degli arredi, organizzare comunque un’illuminazione secondo questo criterio, ricreando, in sintesi, gli stessi effetti di luce e ombra che si hanno all’interno di un bosco in una giornata serena con il Sole vicino allo zenit. Il solito nostro cervello ama i contrasti, perché rappresentano cambiamenti, quindi anche rispetto all’illuminazione e l’occhio umano è ben predisposto per questo.
La così detta latitudine di posa è la capacità, maggiore o minore di un sistema di ripresa di immagini, di riprodurre le sfumature dei colori di oggetti illuminati dal più chiaro o bianco al più scuro o nero senza penalizzare né gli uni, né gli altri. L’occhio umano, se non per eventuale abbagliamento (che cerca comunque di evitarsi), è in grado di vedere quanto sopra descritto anche in condizioni di controluce. All’interno del nostro bosco, è in grado di vedere perfettamente si le parti direttamente illuminate dal Sole, sia quelle in ombra, saltando dalle une alle altre senza problemi, vuoti o ritardi. La sua latitudine di posa non è ancora stata eguagliata da nessun dispositivo sul mercato.
Alle pavimentazioni sono riservate più attenzioni. Gli esseri umani sono percettivamente adattati a deambulare su superfici che presentano molte varianti di tessiture. Non sono adattati a camminare su superfici prive di texture e di un unico colore. Le textures sulle quali camminiamo bene hanno dominanti intorno a grigio, verde giallastro, giallo e arancione, ovviamente considerando diverse tonalità e sfumature e considerando che, in natura, i colori che ci appaiono su grandi superfici sono sempre molto attenuati (bassa saturazione).
Parlando di colore, è bene ribadire, anche se è già stato scritto più sopra, che ogni colore richiede una messa a fuoco diversa. Uno stesso oggetto posto a meno di sei metri dall’osservatore (nella deambulazione gli occhi leggono il terreno da 1, 60 a 6 metri circa) se di colore blu tenderebbe ad andare a fuoco avanti la rètina, richiedendo quindi una minore convessità della lente cristallina (accomodazione dell’occhio), se di colore verde tenderebbe ad andare a fuoco quasi perfettamente sulla rètina, richiedendo quindi una minima accomodazione, mentre se di colore rosso tenderebbe ad andare a fuoco dietro la rètina, richiedendo una maggiore convessità del cristallino. Questo fenomeno è dovuto al fatto che la luce proveniente da un oggetto, se ci appare blu, ha una lunghezza d’onda corta e per questa ragione viene rifratta molto dal cristallino, mandando l’immagine avanti la rètina; all’opposto la luce proveniente da un oggetto che ci appare rosso, ha una lunghezza d’onda corta per questo viene rifratta poco, mandando l’immagine a formarsi dietro il cristallino. Ne consegue che uno stesso oggetto, posto a pari distanza dall’osservatore, se di colore blu sembra essere più lontano, se rosso più vicino di quello che in effetti è. Più il colore è saturo, maggiore è l’effetto.