Premessa sui QUADERNI
Questi miei QUADERNI non sono articoli o relazioni da conferenza, né stralci di tipo tesistico; insomma non sono configurati come tali (citazioni di altri autori, fonti, bibliografia), dunque il lettore potrebbe avvertire la mancanza di un timone.
Di solito questo introduce all’argomento in questione (introduzione, premessa) e prevede uno svolgimento coerente che arrivi poi a un compimento più o meno esaustivo (conclusioni). Le mie sono invece considerazioni emergenti da studi e da esperienze personali passate e in atto, espresse senza capo né coda, a volte saltando di palo in frasca, libere da vincoli accademici lessicali e di forma. Costituiscono un mio modo di divulgare la scienza del colore soprattutto ai progettisti, giacché nessuna scuola di progetto, anche di livello universitario o post universitario considera, almeno per il momento, questo aspetto formativo (colore e percezione cognitiva e applicazioni nel progetto) che si basa molto sulle neuroscienze. Ribadisco che ho iniziato a studiare il colore nel 1983, approfondendo poi nel campo delle neuroscienze, fino a insegnare in alcune scuole del design e al Politecnico di Milano, ma sempre da progettista quale sono, dunque con l’arricchimento di molte esperienze di ricerca applicata, ma anche con i limiti culturali di chi non si è formato in quelle specifiche accademie, detentrici di saperi molto complessi e in continuo aggiornamento. Affacciarmi su ambiti formativi, su materie “lontane” dall’architettura e dal design per utilizzarle e porgerle al mondo del progetto come attenzioni imprescindibili, è stato ed è un impegno che mi ha arricchito e che spero possa aver aperto nuove sensibilità e un nuovo approccio al color design, ma anche del progetto in generale.
Il relatore, il progettista possono quindi attingere i concetti di interesse che possano guidarli a un progetto più consapevole e, nel caso in cui lo ritenessero opportuno, stralciare e riportare in virgolettato citando l’Autore, così che i loro lettori sappiano con chi confutare.
WAYFINDING DESIGN 1
A proposito di segnaletica orientativa
Dalle ricerche del Dipartimento di Psicologia evolutiva e sociale di Padova (P. Sessa: Short-term consolidation of visual patterns interferes with visuo-spatial attention: Converging evidence from human electrophysiology), sembra di poter trarre la seguente indicazione.
L’analisi e la memorizzazione a breve termine di uno stimolo visuo-spaziale sembra interferire con l’attenzione e la memorizzazione a breve termine di un successivo stimolo.
(Nota bene:) Nelle sperimentazioni psicofisiche gli stimoli sottoposti sono della stessa natura.
Ma nella realtà di una scena e affrontando il tema dell’orientamento all’interno di strutture architettoniche complesse e articolate su più livelli, il soggetto si trova di fronte a molti stimoli di natura artificiale e di categorie diverse.
Molti di questi stimoli derivano dalla struttura stessa, dal contenitore architettonico, che si sviluppa attraverso corridoi, atri e camere più o meno grandi da alcune delle quali si può accedere ad altri locali. Il modo in cui questi spazi si sviluppano, le porte di diverse dimensioni, le porte tagliafuoco (REI), le eventuali finestrature che guardano all’esterno, già forniscono un’indicazione orientativa di base, suggerendo, in primis, un itinerario da poter percorrere liberamente alla ricerca del target; ma questo non è sufficiente.
L’orientamento si basa sulla creazione di una mappa mentale tramite l’acquisizione in memoria delle diverse configurazioni delle scene nel loro susseguirsi (paesaggio).
Una cosa è essere posti all’interno di una struttura complessa e invitati semplicemente a uscirne. Uscire da un ospedale può non essere immediato, ma il compito è abbastanza semplice, anche perché i cartelli indicanti l’uscita abbondano. Altra cosa è trovare un determinato reparto, all’interno del quale individuare poi una camera, una saletta medica, un ambulatorio.
Le camere di degenza sono solitamente segnalate da un numero, ma sono presenti anche altre porte del tutto simili e di uguale colore e materiali (anche se diverse in larghezza) delle quali spesso non si specifica la destinazione del locale. All’interno di un reparto di degenza non esiste un elenco ricoverati-numero camera da consultare, per cui bisogna chiedere a qualche addetto di reparto o affacciarsi dentro ogni stanza. Resta però il problema di trovare il reparto in autonomia, ma anche trovare il CUP (Centro Unico Prenotazione), che non sempre si trova ben visibile e identificabile nell’atrio principale di ingresso.
Ed ecco la necessità di una segnaletica orientativa, perché se si manca il bersaglio, si gira spesso a vuoto ed è facile perdersi.
La segnaletica orientativa è un vero e proprio sistema, o meglio, dovrebbe esserlo.
Gli stimoli segnaletico-orientativi in un ospedale sono molti, ma spesso posti in posizioni e ad altezze che ne rendono difficile il rilevamento, a volte raggruppati in modo incoerente, a volte mancanti nei nodi dove servirebbero. Si capisce quando qualcuno “sta cercando la strada”. Il passo è incerto, la velocità troppo variabile, si volta spesso indietro, cerca con lo sguardo in alto in ogni direzione, a volte torna sui suoi passi alla ricerca di qualche indicazione che pensa di non aver visto o compreso, poi chiede alla prima persona “in divisa” che fa l’errore umano di incrociare il suo sguardo.
La segnaletica orientativa (e tutti gli apparati che concorrono all’orientamento), è un elemento funzionale, ma anche a forte valenza psicologica perché rappresenta anche un aspetto dell’accoglienza; dunque è da ritenersi fondamentale elemento dell’umanizzazione di un ospedale.
Le carenze orientative sono ancora nelle mani volenterose ed empatiche del personale. Frequentemente (meglio dire sempre) i responsabili di reparto si trovano costretti ad aggiungere informazioni tramite “cartelli” artigianali affissi con nastro adesivo dove si pensa siano indispensabili, aumentando un certo rumore visivo, poiché viene incrementato il numero di stimoli di diversa natura ovvero di categorie differenti. A volte vi sono bacheche apposite ingolfate da avvisi e regolamenti interni. Mancano appositi spazi predisposti per questi “incrementi indicativi”. Il linguaggio grafico, i formati, i messaggi contenuti sono diversi e a volta sostitutivi di quelli istituzionali spesso ancora visibili. Ognuno, a seconda del suo ruolo (dal medico, al paziente, al parente di un ricoverato) deve saper trovare il messaggio a lui rivolto o per lui utile. Leggere tutto o non leggere nulla porta spesso allo stesso insoddisfacente risultato. Si consideri che a tutto ciò spesso si aggiungono locandine o poster di associazioni collaborative dedicate a determinate utenze e altri comunicati cartacei che pubblicizzano conferenze, seminari e varie iniziative promosse dalla struttura stessa o in collaborazione con organizzazioni di volontariato, culturali o di raccolta fondi da devolvere per il miglioramento della struttura ospedaliera stessa.
L’ospedale è un ambiente pubblico che già di per sé impone comportamenti come nessun altra struttura collettiva.
Chi, come utente, è all’interno di un ospedale ha un compito preciso da svolgere e portare a termine nei tempi concessi.
Il fattore tempo non è da sottovalutare da un punto di vista del suo impatto psicologico. Chi entra in un ospedale si trova sempre sottoposto a orari di apertura-chiusura e di attività che non può ignorare e ai quali deve adeguarsi.
Pur essendo consapevoli di trovarsi in una condizione di criticità (il dover fare una prenotazione, un esame clinico, l’andare a trovare un parente ricoverato), il non riuscire a trovare ciò che si cerca fa sentire in colpa, come il chiedere informazioni a chi chiaramente non è preposto. Alla reception una prima informazione può essere ricevuta, ma non può che limitarsi a un destra o un sinistra o a che piano andare; poi bisogna per forza affidarsi ai cartelli. Allo sbarco ascensori mancano spesso indicazioni a conferma o indicative (punto di smarrimento).
Capita spesso di sentirsi stupidi, imbranati, rendendosi conto che anche in quel luogo, sebbene offra un servizio indispensabile e vitale, bisogna “fare esperienza” per poterne usufruire. Bisogna familiarizzare con quegli spazi articolati e imparare a navigarli. L’esperienza richiede però un certo tempo di apprendimento, solitamente caratterizzato da ansia, sensazione d’inadeguatezza, di tempo perso in itinerari sbagliati e di intralcio delle attività di coloro ai quali ci si sta affidando o è affidata la sopravvivenza di un congiunto. Peggio ancora si può percepire la struttura come disorganizzata e indifferente nei confronti delle necessità dell’utenza.
L’area cognitiva, soprattutto in condizioni attenzionali critiche, paragonabili a quelle che si verificano in caso di pericolo, tende a ignorare grossolanamente tutti gli stimoli ritenuti non utili al compito assegnato. Non può permettersi, per istinto di sopravvivenza, di soffermarsi in atteggiamento introspettivo per analizzare e comprendere un’interfaccia orientativa al fine di comportarsi adeguatamente. Si tenga presente che gli occhi vedono tutto ciò che rientra nel campo di osservazione (scena), ma che il sistema percettivo ovvero quello che ci rende consapevoli di ciò che stiamo vedendo, tende a scartare ciò che non è di interesse. Questo si traduce in qualcosa che potremmo definire cecità percettiva.
Ciò che non stiamo cercando, proprio “non lo vediamo”.
In queste occasioni l’attenzione è prevalentemente concentrata sul rilevamento del segnale che si sta cercando. Spesso il segnale offerto dalla struttura non viene riconosciuto come segnale utile o non viene rilevato oppure non si trova nel posto giusto (punto di smarrimento, dunque di urgente ricerca di un’indicazione).
È importante lavorare anche sull’aspettativa. Che stimolo-segnale si aspetta chi entra e poi naviga all’interno di una struttura ospedaliera? Quali sono i possibili punti di smarrimento?
Come premesso, l’analisi e la memorizzazione a breve termine di uno stimolo visuo-spaziale sembra interferire con l’attenzione e la memorizzazione a breve termine di un successivo stimolo. Nelle sperimentazioni psicofisiche gli stimoli sottoposti sono della stessa natura, cosa che non esiste nella scena reale.
Dunque la prima indicazione di attenzione progettuale per quello che attiene alla segnaletica orientativa è di organizzare il sistema su diverse categorie e sotto-categorie percettive. Ogni sotto-categoria dovrà rispondere ai requisiti di impostazione delle categorie e del sistema, ma avrà la caratteristica di essere tanto e così velocemente discriminabile dalle altre da essere cancellata dal sistema attenzionale dell’osservatore.
L’appartenenza a una categoria facilmente comprensibile, memorizzabile e riconoscibile, elimina, fungendo da conferma (feedback), l’interferenza attenzionale di uno stimolo successivo al primo.
Ma chi si interessa dei cartelli segnaletico-orientativi? Solitamente vengono studiati e commercializzati da aziende che si avvalgono di designer grafici. Vengono poi posizionati da tecnici interni alla struttura ospedaliera. Difficilmente si considerano i limiti percettivi di chi è estraneo ed entra per la prima volta nella struttura.
La peggior cosa è affidare a “chi è di casa” il posizionamento della segnaletica orientativa in quanto, conoscendo bene il luogo, tenderà a “risparmiare” indicazioni (soprattutto quelle di conferma) e a non identificare e sottovalutare i punti di smarrimento, dove è fondamentale far trovare l’indicazione.
Un certo concetto di “design a tutti i costi” ha portato a grafismi uniformati, minimal e di sicura eleganza, ma distanti dai concetti di percettibilità e affordance*. Quasi sempre i cartelli di indicazione sono di forma rettangolare, orizzontale, a fondo bianco, con la scritta nera di un carattere sempre uguale e con freccia che indica la direzione da seguire. L’esigenza di componibilità dei cartelli in un’indicazione multipla, complica la lettura.
Ammesso che la quantità di detti cartelli sia giusta e anche la loro collocazione, il soggetto è comunque sempre obbligato a una “lettura digitale”. Deve leggere tutti i cartelli e interpretarli ogni volta. Ogni cartello incontrato, più che una traccia che identifica il percorso giusto, viene considerato come un nuovo inizio di percorso.Quello che dovrebbe aiutare diventa un impegno in più, un gioco perverso di “caccia al tesoro”, che non può che risultare antipatico, respingente e controproducente.
Bisogna anche tener presente che ormai viviamo in una società sempre più multietnica e che negli ospedali il fenomeno è molto più presente ed evidente. Non è possibile esprimersi in un cartello in più lingue e non è nemmeno pensabile di moltiplicare i cartelli che diano la stessa indicazione, ma in diverse lingue.
Può funzionare meglio una lettura analogica.
L’esempio dell’orologio può aiutare. Se io devo leggere l’ora espressa in digitale (per esempio 12:58), la consapevolezza che ormai sia l’una, arriverà con un po’ di ritardo perché sarò stato costretto a leggere e tradurre in “sensazione oraria”. Un orologio con le classiche lancette (analogico), mi fornirà a colpo d’occhio quella sensazione. Parlando in linguaggio psicofisico, potrei affermare che l’orologio analogico è un paesaggio orientativo per sapere che ora è in modo approssimativo, in quanto la precisione al minuto, di solito, non interessa.
Un altro esempio di lettura analogica è quello delle icone che si utilizzano per i sistemi operativi di computer e smartphone e per gestire le varie applicazioni. Molte funzioni, dove è possibile, vengono rappresentate da icone, da simboli grafici o pittogrammi che dir si voglia. Sono scorciatoie percettive che, oltretutto, occupano meno spazio rispetto a una scritta, sono leggibili anche se ridotte in minima dimensione e scavalcano il problema linguistico. Non sono state adottate per rendere questi apparati più friendly, ma è stata proprio questa scelta prettamente funzionale a identificarsi con un utilizzo più veloce, simpatico e, appunto, amichevole.
* Affordance
Affordance è un termine originariamente coniato da uno psicologo, JJ Gibson, negli anni ’70. Lo definì come il rapporto tra un ambiente e un percettore. Il termine è stato poi esteso anche in relazione al rapporto oggetto-percettore e indica le caratteristiche di un oggetto che permettono all’utilizzatore di dedurne le funzionalità e il funzionamento. In percettologia ambientale il termine ha ripreso la sua definizione originaria, riferendosi alle caratteristiche di configurazione di un ambiente (spazialità, colori, materiali, oggetti contenuti, segnaletica, decorazioni, eccetera) che permettono all’utente di dedurne la destinazione d’uso, le modalità di fruizione, i comportamenti da adottare anche nei confronti dei diversi ruoli e identità di altri soggetti che ne usufruiscano.
Per fare un esempio nel caso in oggetto ovvero relativo alla segnaletica orientativa, il cartello che indica il reparto di Ginecologia ha una bassa affordance in quanto la freccia che indica “a sinistra” è posta a destra della scritta. Il cartello che indica il Nido ha una migliore affordance perché la freccia che indica “a destra” è posta a destra della scritta.
Leggendo da sinistra a destra (come siamo soliti fare), i messaggi dei due cartelli sarebbero corretti entrambi. Infatti nel primo leggiamo GINECOLOGIA – “VAI A SINISTRA”, nel secondo NIDO – “VAI A DESTRA”.
Le frecce però non sono parole, ma pittogrammi e il nostro criterio di lettura cognitiva cambia, pretendendo che le frecce abbiano come asta le scritte, in sintesi che “se le tirino dietro”. Il nostro sistema percettivo ci impone di leggere un tutt’uno freccia-scritta e non due messaggi in successione, giacché il primo è digitale e il secondo analogico.
La soluzione per una buona affordance dei due cartelli sarebbe quindi quella di avere la freccia indicante sinistra a sinistra della scritta Ginecologia, la freccia indicante destra va bene nel cartello del Nido, ma in tutti e due i casi le frecce dovrebbero essere molto più vicine alle scritte, con una spaziatura equivalente a quella tipografica tra una parola e la successiva.
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