Mettere in percettibilità
Il lettore già esperto in materia di percezione cognitiva ricorderà che il nostro sistema visuo-percettivo si è perfezionato maturando all’interno dell’ambiente naturale per adeguarsi a esso e sopravvivervi [Lucia R. Ronchi -La scienza della visione dal punto di vista delle scene naturali – Fondazione Giorgio Ronchi – Firenze 2006]. Da ciò è facile desumere che l’ambiente antropizzato, essendo interazione tra naturale e artificiale, possa richiedere tempi maggiori di rilevamento, direzione attenzionale, comprensione e contestualizzazione del significato degli stimoli visivi, comparazione con i propri referenti consolidati (oggetti-contesto, situazioni già note o vissute [Mastronardi e Villanova – da loro studi di psico-neuroendocrino-immunologia dei processi percettivi e comportamentali]), elaborazione cognitiva istintuale/conscia dei comportamenti vantaggiosi da attuare.
Dunque a una ottimale percettibilità risponderebbe un ambiente naturale “puro”, mentre un ambiente o scena più ibridata dall’artificiale e da tutti i suoi correlati, la renderebbe percettivamente più complessa e meno fluida, richiedendo una maggiore preparazione culturale-conoscitiva-esperenziale da parte del soggetto. Qualcosa che ha a che fare con l’affordance, che, se vogliamo, può essere intesa come percettibilità (+/-) di un oggetto-scena artificiale.
A lato, si può aggiungere che, a seguito del giudizio dell’osservatore, la complessità delle elaborazioni cognitive che fanno apparire una scena di buona (facile, gradevole, fluida) percettibilità, hanno di certo una stretta correlazione con il concetto-sensazione di bellezza.
Possiamo quindi riassumere affermando che la messa in percettibilità sia l’efficace convergenza del progetto di una scena (ambiente, stanza con pareti e soffitti inclusi) che consideri attentamente questi tre correlati, diversi nelle loro definizioni, ma concettualmente quasi sinonimi nell’attuazione progettuale:
Percettibilità = in relazione a una scena-ambiente-stanza, è la capacità del progetto-realizzazione di offrire un’armonia degli stimoli offerti, una loro coerenza con il contesto e una loro immediata identificazione (identità di ruolo-utilità), affinché il percettore non rilevi segnali di pericolo, individui facilmente gli spazi di deambulazione, sia facilitato nel comprendere i flussi e le dinamiche sociali che possono ivi svolgersi, sia in grado di regolare il proprio comportamento in direzione collaborativa-inclusiva e non difensiva-oppositiva e sia agevolato nell’istintivo processo di familiarizzazione ambientale (1).
Affordance = in relazione a una scena-ambiente-stanza, è la capacità del progetto-realizzazione di scegliere e configurare i diversi elementi in modo che l’osservatore sia facilitato nel comprendere immediatamente che cosa sono, a cosa servono e come si usano, identificando anche se ne viene richiesto l’uso, se è possibile usufruirne liberamente o meno, se sono destinati all’utilizzo da parte di altri (identificazione, comprensione e attribuzione dei ruoli).
Bellezza = difficile da definire perché cambiano i canoni nel tempo e ognuno ha il suo senso della bellezza. Tuttavia, potremmo definirla come la proprietà di un oggetto, di una scena, di un ambiente, stanza… (perché qui di questo si parla), di destare un sentimento piacevole, positivo, avvicinante e amichevole di appagamento, armonia, affidabilità, durevolezza, sicurezza e tutto quanto verrebbe definito “conferente vantaggi” a livello intersoggettivo.
È ciò che è sempre stato il fine degli artisti, dei creativi, degli architetti e dei designer.
Affinché questo sentimento gratificante e tranquillizzante si realizzi, le aree cognitive devono esprimere un giudizio positivo; esse sono naturalmente e spietatamente giudicanti, perché è biologico, immediato, irrevocabile, istintivo e assolutamente necessario per la sopravvivenza.
A un ambiente squallido, male illuminato, dove ogni elemento appare messo lì solo perché utile e obbligatorio per legge, ci si può abituare, ma nemmeno una disperata rassegnazione potrà convincerci che “è bello”. E attenzione: i materiali contano veramente poco, perché i materiali “ricchi” sono legati solo al lusso, non al design, all’armonia, all’accoglimento percettivo, alla bellezza.
La messa in percettibilità rappresenta quindi la sintesi concettuale, la “chiusura del cerchio progettuale”, quando si affrontano i temi del perceptive color design o del wayfinding design o dell’umanizzazione di ambienti collettivi.
L’umanizzazione e il wayfinding, che io ho racchiuso nel maggior respiro scientifico del Perceptive color design, sono nate dalla consapevolezza della bassa qualità di percettibilità degli spazi dedicati alla collettività. Ovvio che la necessità di intervenire si sia sentita in primis negli spazi più critici, come gli ospedali, hospis, RSA, nuclei Alzheimer e SLA.
La percettibilità raccoglie la qualità ambientale in generale (configurazione degli spazi, pareti, pavimentazioni, soffitti e contro-soffitti, materiali, colori, arredo, illuminazione, clima), la sua capacità di accoglienza e familiarizzazione, nonché l’offerta orientativa (che è fondamentale).
Sarà bene però che l’orientamento progettuale, atto alla realizzazione di questa qualità ambientale, non si basi solo sull’esplicazione del design così come lo si intende oggi, ma dal concetto puro di design, ovvero di progetto replicabile di utilità, dedicato all’utilizzo collettivo. L’orientamento progettuale dovrà essere basato sul sistema percettivo umano, ovvero sui processi visivi, attenzionali, discriminanti degli stimoli, analitici sull’osservato, decisionali, comportamentali. Il famoso “progetto intorno all’uomo”, spesso tanto dichiarato quanto disatteso.
La coerenza contestuale
Penso si possa partire dal suo contrario, che è la causa primaria della bassa percettibilità, ovvero l’incoerenza contestuale all’interno della quale ci troviamo spesso nelle grandi strutture architettoniche dedicate alla collettività.
Quella che potremmo definire “incoerenza contestuale” non è da cercare nella inconsueta, sorprendente, inaspettata o inadatta presenza di un elemento considerabile estraneo al contesto preso in esame, ma la mancata contestualizzazione dell’elemento stesso, l’assenza di quei segni, di quegli indizi che ne suggeriscono l’identità, la giustificabile collocazione in uno spazio dedicato. Un gruppo di pezzi non fanno un insieme e rappresentano male il sistema al quale appartengono. Incoerenza contestuale potrebbe trovare un sinonimo percettivo nei concetti di “disordine”, “rumore visivo”, “cose apparentemente buttate a caso o fuori posto”, “provvisorietà degli elementi”. Spesso la necessità di flessibilità nell’utilizzo degli spazi, può portare il progetto (evidentemente non portato alla dovuta compiutezza) a creare l’incoerenza contestuale.
Essere sensibilizzati al problema
e portare a progetto
La coerenza contestuale è un risultato psico-percettivo intersoggettivo, che risulta quindi comune alla maggior parte dei soggetti coinvolti, una volta all’interno di una certa scena. Estintori e maspi, pannelli di controllo di linee elettriche e gas, barre di protezione delle pareti, salva-spigoli, ma anche gruppi di macchine di distribuzione di bevande e spuntini, sono elementi certo coerenti contestualmente con l’interno di un ospedale, ma spesso (meglio, quasi sempre) sembrano buttati a casaccio, certamente dove servono, ma percettivamente distaccati dal contesto, senza che siano identificabili spazi a loro dedicati. Lo stesso vale per i cartelli segnaletici, che sembrano galleggiare sempre fuori posto, ad altezze sbagliate, ammesso, appunto, che siano facilmente rilevabili. Se lo fossero, se ce ne fossero abbastanza e nei posti giusti, la gente si perderebbe di meno negli ospedali.
Quindi significa che una giusta contestualizzazione degli elementi di servizio funzionali (compresi i cartelli segnaletici), elimina un rumore visivo che, evidentemente, confonde l’utenza. L’utenza è costretta ad analizzare ogni elemento “galleggiante” al fine di trovare lo stimolo visivo che sia di aiuto per orientarsi. È costretta a imparare un “sistema di interfaccia” che spesso sistema non è. Un sistema, per essere definito tale, deve rispondere a un ordinamento, al rispetto di determinati parametri, alla configurazione di diverse categorie afferenti, a prassi per la sua applicazione e utilizzo.
Insomma “ogni cosa al suo posto”. Ma quel posto per ogni cosa deve essere realizzato. Il rendere salienti (2) determinati elementi, aiuta l’orientamento, la percezione dell’identità e ruolo dell’istituzione e soprattutto è realizzabile nella segnaletica orientativa tramite la categorizzazione esplicitata.
Come già evidente nei miei quaderni, un elemento fondamentale per l’orientamento è il paesaggio, ovvero una configurazione coerente di stimoli visivi che riescano a caratterizzare un certo ambiente o una serie di ambienti concatenati (come nel caso dei locali di connettività). Ciò si può realizzare soprattutto lavorando sulle pareti, dando il giusto risalto e collocazione istituzionale ai vari elementi funzionali di sicurezza e segnaletica.
L’area cognitiva di un essere umano, specie se assorta in un compito cruciale come quello di trovare un determinato reparto di degenza o un certo ufficio, laboratorio, camera, tende a semplificare, cancellando tutti gli stimoli che ritiene non utili allo scopo. Per cancellare significa proprio rendere invisibili determinati stimoli ritenuti inutili.
Se è vero che vediamo quasi tutti gli estintori che incontriamo, ma senza vedere i cartelli segnaletici che potrebbero interessarci, significa che siamo stati distratti da incoerenze contestuali causate da categorizzazioni non esplicitate. Tutti abbiamo provato l’ansia generata dal vedere o leggere ciò che non ci serve e non riuscire a trovare l’indicazione salvifica che ci porta dove dobbiamo andare.
Pareti bianche o monocrome tutte uguali, porte e vani scala uguali. Al loro interno estintori e tutto quanto già elencato. Sebbene giustificabili all’interno di un ospedale, non possono che produrre incoerenza contestuale, se non vengono percepite come contestualizzate con il contenitore architettonico.
Come realizzare questa contestualizzazione? Ogni cosa al suo posto?
Il color design può fare molto, creando paesaggio, scenografie (3) sulle pareti, tramite allogazioni cromatiche studiate per dare identità e profondità alle stesse. Contenitori cromatici che diano una collocazione, un’identità di spazio dedicato agli estintori, ai maspi, alle macchinette del caffè. Il nostro cervello (tanto per semplificare, chiameremo così il nostro complesso e articolato sistema percettivo), come già detto, tende a semplificare per capire la situazione e guidarci al miglior e più breve modo di portare a termine il nostro compito in un certo momento. Per semplificare deve per forza cancellare ciò che ritiene non interessante né pericoloso (attenzione perché il cervello analizza sempre questo aspetto per salvaguardarci). Per poter cancellare dalla nostra attenzione, considerazione e addirittura dalla consapevolezza visiva, lavora organizzando gli elementi di una scena all’interno di categorie. Una volta fatto, si concentrerà solo sulla categoria ritenuta utile e al suo interno cercherà lo stimolo che serve. Se non riesce a individuare e comprendere queste categorie, magari perché semplicemente non proposte, “si smarrisce”.
È frequente stupirsi della propria incapacità di orientarsi all’interno di una grande struttura architettonica; questo provoca ansia, frustrazione, rabbia e sensi di colpa, soprattutto dopo aver notato la presenza di cartelli orientativi, aver provato a servirsene, essersi persi ugualmente senza trovare la meta prevista e aver dovuto chiedere informazioni.
Il rapport
Il termine rapport è stato introdotto dal Milton Erickson nelle sue ricerche, intorno al 1940, sull’ipnosi e sull’ipnoterapia, relativamente alle quali si colloca tra i grandi precursori. Questo ci porterebbe fuori strada se non fosse per gli aspetti percettivi particolarmente significativi che il termine sembra riassumere e rappresentare.
Il rapport è una delle modalità più importanti di interazione umana inconscia. Mettendo da parte altri utilizzi alternativi del termine, analizziamo il concetto come espresso dallo stesso Erickson.
Rapport è una ridirezione attenzionale degli stimoli sensoriali esogeni che provoca un restringimento del campo della consapevolezza, concentrandolo solamente su di un certo numero di persone, eventi, oggetti, con la conseguente dissociazione sensoriale e cognitiva da tutto il resto.
Le persone, nei loro diversi ruoli, all’interno di uno spazio collettivo insieme con l’ambiente stesso, costituiscono una scena animata, spesso sconosciuta all’utente e all’interno della quale deve potersi orientare e trovare una sua identità, ruolo, possibilità di interazione e di soluzione delle finalità che lo hanno portato a trovarsi in quel luogo.
Inciso: a proposito di identità e ruolo sopra menzionati. Qualsiasi persona si ricoveri in ospedale per subire un’operazione chirurgica o una particolare terapia, ha bene in mente la sua identità, riferita alla sua famiglia e amicizie, al suo lavoro, ai suoi programmi di vita, alla stima e considerazione che ha da parte della sua cerchia, ma all’esterno di quel luogo. In pochi minuti si ritrova in pigiama e ciabatte, in un ambiente estraneo, nel ruolo di malato, paziente, ricoverato. Un ruolo che comporterà il dipendere da ciò che faranno altre persone, di solito sconosciute. Il dover rispondere a comportamenti e orari del tutto peculiari e diversi dalle sue abitudini. Aver a che fare con una presumibile inabilità seppure temporanea e soprattutto con l’ansia, la paura, la noia. Un momento di cambiamento nella propria vita che si ripropone con il ricovero e che impone una riconfigurazione dei propri strumenti psicologici, del proprio pensiero in merito alla situazione critica da affrontare (insight).
L’utente si trova quindi a cercare, per una questione di conservazione biologica, una certa comunanza di prospettiva, una sorta di sincronizzazione con lo scena.
È tipico di chi entri per la prima volta in un grande ambiente collettivo una tale concentrazione sullo scopo che lo ha portato in quel luogo e sulla ricerca di una indicazione risolutiva da non accorgersi della segnaletica, di un conoscente che gli stava proprio accanto, del richiamo di un addetto che lo vuole aiutare. Risulta evidente la criticità percettiva nella quale si trova questa persona e la necessità che, a prescindere dall’aspetto di interazione umano, lo stesso ambiente riesca a innescare la sopraccitata sincronizzazione, agganciando in modo esplicito la ricerca dell’informazione e fornendola poi in modo chiaro e univoco, riducendo notevolmente, in tale modo, l’ansia da estraneità.
Il rapport ambientale può quindi essere la definizione per esprimere la caratteristica del rapporto tra il soggetto e uno scenario-ambiente, dove quest’ultimo ha il compito di entrare efficacemente in sintonia con gli intenti e l’identità del percettore. In una successiva e più informale definizione di rapport ci si riferisce a “un sentimento di connessione armoniosa tra le persone o gruppi di persone e ambiente”. L’ambiente deve essere sempre considerato perché non c’è relazione umana che non comporti un luogo dove possa realizzarsi. L’ambiente deve quindi comunicare.
Concludendo, il rapport è da intendersi come un momento critico nel quale le capacità cognitive del soggetto sono disorientate e cercano uno stimolo di aggancio, analizzando i diversi punti di stimolo in modo incoerente, perdendo di vista un’analisi d’insieme che gli risulta complessa e faticosa. Il rapport ambientale (perché è dell’ambiente che stiamo parlando) è la realizzazione di questo aggancio cognitivo che porta sollievo e soluzione.
Per arrivare a questo, bisogna che il progetto-realizzazione lo abbia tenuto presente e se no, che il gestore-decisore-dirigente della struttura ospedaliera, rilevando il problema a struttura già operativa, attivi un progetto dedicato: umanizzazione+wayfinding design, contenuti del Perceptive color design.
Appendice
(1) Familiarizzazione ambientale.
Come è noto amigdala e ipotalamo hanno anche un ruolo super-cognitivo che agisce automaticamente a determinati stimoli esogeni, al fine di salvaguardare la nostra sopravvivenza. Si attivano prima che le aree cognitive inizino ad analizzare ed elaborare la situazione per adeguare le nostre reazioni e comportamenti.
Tipico esempio è quello della serpe che sbuca improvvisamente davanti ai nostri piedi, soprattutto se situazione inaspettata. Bloccheremo il passo e arretreremo con un balzo “senza pensarci”, insomma rendendocene conto solo a cosa avvenuta e avvertiremo l’aumento del battito cardiaco (adrenalina immediatamente messa in circolo dalle ghiandole surrenali) che avrà già preparato l’organismo alla situazione di attacco-difesa-fuga.
Entrando in un ambiente a noi sconosciuto, ci troveremo a esplorarlo per capirne le caratteristiche, le funzioni e il comportamento da adottare in base al nostro ruolo e al compito da svolgere. Il meccanismo automatico (amigdala-ipotalamo), non rilevando pericoli imminenti, ci avrà comunque già messo in guardia, attivando maggiormente il sistema nervoso autonomo simpatico. Ci accorgeremo di essere in uno stato di ansia difensiva-ricognitiva che da una parte ci aiuterà a proteggerci, ad agire, a stare attenti e svegli, dall’altra parte ci ostacolerà restringendo il nostro campo attenzionale (rapport), assorti e smarriti nel cercare i segnali-stimoli (in primis visivi) che ci aiutino nel compito prefissato o ad affidarci con fiducia e serenità.
Va detto che se invece di entrare nel suddetto ambiente con le nostre gambe, vi venissimo portati da qualcuno (sedia a rotelle, barella), l’ansia “da comportamento” (cosa devo fare ora, dove devo andare, a chi mi devo rivolgere), verrebbe sostituita dall’ansia “di passività”, in quanto saremmo già ben consapevoli di dipendere da mani altrui.
La necessità biologica di imparare-conoscere-riconoscere l’ambiente di cui sopra, soprattutto nell’eventualità di dovervi trascorrere minuti-ore-giorni, si perfezionerà in una conoscenza che dovremo accettare, percependola come amichevole, familiare, come “casa provvisoria”.
Facile a questo punto immaginare quanto sia importante la qualità ambientale della camera di un ospedale, ma soprattutto di un hospis, dato che il soggetto sarà consapevole che quella sarà “casa sua” da quel momento in avanti. Inutile aggiungere che la sopra menzionata qualità ambientale non la si potrà ingenuamente realizzare solo con graziosi mobiletti da comunità sanitaria.
(2) “La salienza costituisce un processo di integrazione grazie al quale oggetti e stimoli provenienti dall’ambiente esterno o dal nostro stato interno raggiungono l’attenzione, acquistano rilevanza e diventano in grado di influenzare pensieri e comportamenti.”
(The clinical, psychopathological and neurobiological features of salience / Lucia Godini, Lorenzo Lelli, Beatrice Campone, Eleonora Ciampi, Elisa Corsi, Valentina Ramella Cravaro, Andrea Ballerini – Dipartimento di Neuroscienze, Psicologia, Farmacologia e Salute del Bambino, Università di Firenze)
(3) Scenografie…attenzione! Seppure assimilabili al concetto di scenografia, non intendo poster giganti, opere pittoriche artistiche, quadri e quadretti con paesaggi alpini o trompe-l’oeil! Uso il termine scenografia come estensione di scena nell’accezione della psicofisica, dunque scientifica. Scena è definibile tutto ciò che rientra nel campo esplorativo visivo di un soggetto, quindi anche quando entrate nel vostro bagno, vi trovate di fronte, anzi dentro, a una scena. Scenografia, nel nostro discorso, rappresenta un intervento pittorico strutturato, che attraverso le sue possibili configurazioni, sia in grado di far corpo con la struttura architettonica, conferendole un’identità “locale” (quel tale reparto, per esempio). Le scenografie in parete forniranno gli stimoli visivi per conoscere e riconoscere la scena proposta dalla struttura, creando paesaggio (altro termine da non confondere con le rappresentazioni pittoriche).