Si è scritto e propagandato in tutti i modi, e già da tanti anni, il progetto “intorno all’uomo”. Preferirei parlare di progetto intorno all’essere umano per una parità di genere, ma non è questo il punto. Il punto è che a livello formativo non si è fatto nulla di più del porre all’attenzione il fatto che i destinatari di un progetto, quindi la così detta utenza, è costituita da esseri umani che non possono più essere considerati solamente secondo le indicazioni dell’ergonomia antropometrica, perché si tratta di esseri senzienti che vivono emozioni e che agiscono in base a queste.
Forse nei vari tentativi di progettare in questa direzione, è nata la consapevolezza che spesso è il progetto stesso (il progetto realizzato) che può generare conflitti emozionali o pilotare i comportamenti nella direzione sbagliata oppure non fornire alcuna indicazione, mandando la gente nello sconforto del disorientamento.
Non vorrei sembrare esagerato con questa disamina spietata, ma è pur vero che si è sempre detto che l’architettura crea nuovi comportamenti, stili di vita, fruibilità sempre migliori degli spazi nella loro destinazione d’uso sempre più flessibile.
La domanda però è questa: mettendo da parte la creatività, la genialità e l’esperienza di molti progettisti “illuminati”, le accademie, quale formazione aggiornata hanno messo a disposizione degli studenti? Forse un po’ di psicologia in più, ma di quella del sentire comune, del buon senso e della buona volontà.
Non si può certo pretendere che i futuri progettisti studino psicologia sperimentale, ma è proprio dal fatto che la neuropsicologia cognitiva sia tra le materie studiate a fondo, già si comprende che per capire, prevedere, “progettare” i comportamenti, si deve studiare “come funziona il cervello e il sistema nervoso”.
La vecchia scuola di psicologia si rese conto della necessità di indagare a fondo sulla connessione “stimolo-risposta allo stimolo” (Gustav Theodor Fechner 1860), creando la psicofisica e questo ramo della psicologia “moderna” attinse, all’inizio degli anni ’60, dagli studi delle emergenti neuroscienze, che potremmo definire come un complesso e articolato sistema di studio e sperimentazione per comprendere il sistema nervoso e le sue connessioni, il sistema endocrino, le malattie e i disturbi di origine neurologica, i loro effetti sul sistema fisiologico e viceversa. Da queste poche righe che riduttivamente e in parole povere hanno sintetizzato la storia delle neuroscienze, vi sarete resi conto quanto sia strettamente connessa la così detta sfera psicologica con quella fisiologica. Esse interagiscono; l’una influenza l’altra reciprocamente al punto da poter abbandonare il distinguo (se non per ragioni di studio e sperimentazione) considerandole come un unico sistema.
Un sistema che, per le funzioni vegetative va avanti in autonomia per garantirci la sopravvivenza (non dobbiamo ricordarci di respirare, di far battere il cuore, di sudare per abbassare la temperatura, di restringere l’iride se c’è troppa luce, di aumentare la pressione sanguigna se dobbiamo correre, eccetera [Sistema Nervoso Autonomo]),
per funzioni di sopravvivenza provoca reazioni fisiologiche e comportamentali immediate e involontarie [Amigdala] (circa 100 millisecondi) perché coinvolgere le aree cognitive (consapevolezza, ragionamento, archivio esperenziale…) richiederebbe troppo tempo (1- 2 secondi circa per essere in consapevolezza di reazione a 8-10 secondi o oltre per fare analisi più circostanziate e decidere come reagire),
per funzioni cognitive ci fornisce la consapevolezza di sé, analizza tutti gli stimoli esogeni, ci rende coscienti delle nostre emozioni, analizza i referenti consolidati e transitori (in sintesi lo “storico” delle nostre esperienze vissute o risapute in situazioni simili a quella in cui ci troviamo in quel momento, unitamente alle emozioni vissute in quella occasione e alla memoria dei comportamenti attuati e delle conseguenze che ne sono derivate…). Con questi dati molto complessi che vengono richiamati e analizzati in consapevolezza (si portano appresso anche immagini e sono sempre accompagnati da diversi stati emozionali), la nostra “mente” o sistema cognitivo, ci suggerisce il comportamento da attuare, spesso anche alternative e perfino diverse ipotesi sulle conseguenze che ne possono derivare. Il tutto in un tempo ineguagliabile dall’intelligenza artificiale, perché il nostro sistema cognitivo “vive” ed elabora delle componenti che nessuna intelligenza artificiale potrà avere: le emozioni, i sentimenti, la personalità, il carattere, il vissuto “con il cuore e con la pancia”.
Per comprendere, almeno di base, tali complessità, bisogna studiare un po’ di neurofisiologia.
Per poter “portare a progetto” queste conoscenze bisogna studiare anche un po’ di psicofisica.
Chi lavora producendo spazi interconnessi, forme fisiche artificiali, comunicazione grafica, segnaletica e soprattutto superfici delle quali decidere il colore o i colori e come declinarli, dovrà avere una cultura aggiornata sul fenomeno cromatico e anche sapere cosa sia il daltonismo e quali limiti imponga.
Per comprendere a fondo il colore, non ci si può però più fermare alla cultura di stampo artistico-filosofico che in pratica si è esaurita con Josef Albers, che nel 1963 pubblicò Interaction of color, dunque proprio agli inizi del decennio nel quale,
proprio negli Stati Uniti stavano consolidandosi le neuroscienze. Lui stesso aveva scritto che per certi fenomeni per cui determinati colori, se giustapposti ad altri, apparivano diversi, doveva arrivare prima o poi una spiegazione da parte della scienza. E così stava avvenendo, probabilmente a sua insaputa. Il suo desiderio di capire i perché e il suo implicito invito ai colleghi e studiosi del colore a comprendere a fondo il fenomeno cromatico, i suoi effetti, la sua instabilità, i suoi inganni, non venne esaudito. Le accademie artistiche e di architettura continuarono ad attingere dal passato, ignorando i preziosi contributi delle neuroscienze, ma anche di fisica ottica e di fisica quantistica che ci aiutano a capire il fenomeno della luce. Capire “scientificamente” cosa sia la luce, cosa significhi “oggetto illuminato”, cosa provochino i fotoni (se si sa cosa siano) quando arrivano nell’occhio umano, sulla retina, nella fovea e perché scompaiono nell’epitelio pigmentato.
Il fenomeno del contrasto simultaneo e consecutivo (post image) si può spiegare solo se si conosce il funzionamento di specifici neuroni: le cellule a doppia opponenza (double opponent cells), ma bisogna sapere dove si trovano e quali segnali arrivano loro, e cosa succede se gli arrivano parzialmente (discromatopsia).
Il famosissimo e potentissimo Color Test di Max Lüscher è un altro esempio di come determinate conoscenze possano spiegare i perché; perché funziona, perché chiarisce molte cose ben oltre il suo scopo di test, perché può essere utile ai progettisti. Ma lo stesso Lüscher, che con quel test è diventato giustamente famoso, non ne ha spiegato bene il funzionamento, che si basa sulle induzioni cromatiche sul sistema nervoso autonomo e, aggiungo, non di certo per le “evocazioni” invocate dalla obsoleta psicologia del colore.
Riassumendo, i progettisti del terzo millennio, soprattutto se si occupano di edifici e interni pubblici, scuole, ospedali, grandi uffici, dovrebbero studiare quelle parti delle scienze già sopra indicate che possono costituire potenti strumenti di progetto finalmente dedicato all’essere umano, come dovrebbe essere sempre stato.
Cos’è l’umanizzazione?
Nella mia attività professionale, mi sto occupando di umanizzazione di reparti ospedalieri. Non lo scrivo per confermarvi l’utilità di aver studiato le materie di cui sopra, ma per sottolineare quel paradossale termine umanizzazione e cercare di spiegarlo.
Un termine che esprime una necessità che le stesse aziende sanitarie locali avvertono, e oggi pretendono, da una struttura ospedaliera o di assistenza; un termine che però mette in risalto una carenza genetica anche nei più recenti policlinici e fa subito pensare che un ospedale moderno appena realizzato, con tutte le complessità tecnologiche e di flusso gestite in modo aggiornato e competente, risulti “disumano” ovvero non idoneo a ospitare esseri umani.
Certo è impensabile che un ospedale sia disumano, ma basta farci un giro per rendersi conto che l’aspetto funzionale è stato privilegiato, anzi, forse l’unico considerato. Sono state considerate molte “misure”, la larghezza delle barelle, le relative protezioni alle pareti e la dimensione delle porte, le porte taglia fuoco, gli estintori e i maspi, i vari cartelli di legge che indicano le vie di fuga in caso di incendio, i grandi pannelli di controllo elettrico e di gas, gli arredi delle camere di degenza dove insieme alle barre testa-letto convivono “comodini” versatili e letti-barella e qualche armadietto che, nella migliore delle ipotesi, presenta ante violentemente colorate, quasi a rivendicare una cura per l’estetica che però dialoga con se stessa.
Le pareti sono solitamente bianche oppure, se il colore è stato considerato, ci si trova immersi in scelte dove un dubbio “buon gusto” ha palesemente fallito in abbinamenti dove chiarezza e saturazione sono stati ignorati.
Il tutto appare come buttato a caso quasi incoerentemente. Difficile che a un paziente non venga il timore di essere trattato nello stesso modo. Difficile che riesca a perfezionare quel biologico contratto che ogni essere umano, anche senza rendersene conto, stipula con un luogo, una porzione di spazio, che per un certo periodo si impone come “casa”.
La familiarizzazione con un luogo è fondamentale per un degente o anche per chi si rechi, per un tempo breve, in uno spazio destinato alla diagnosi o alla terapia. L’ambiente “parla” e identifica quel reparto, la struttura ospedaliera stessa e non fa certo una bella impressione trovarsi di fronte ad ammassi di comunicazioni, avvisi, proibizioni, indicazioni, stampati “in casa” e attaccati malamente con nastro adesivo sulla porta (o di fianco) all’ingresso di un reparto.
Una pazza ipotesi sarebbe quella di ribaltare tutto a favore dell’accoglienza. Prendere un hotel a cinque stelle e inserirvi semplicemente tutti gli apparati medicali utili per farlo diventare un ospedale. Forse quello che si è cercato di fare in molte cliniche private, ma dove il facoltoso paziente sa bene non solo che non gli si possono garantire eventuali interventi di emergenza, ma anche che quell’aspetto da hotel è stato realizzato per farlo sentire importante e coccolato come fosse in vacanza, visto che paga e parecchio.
La soluzione ideale è quindi quella di realizzare un ospedale che sia facilmente identificabile come ospedale, senza camuffamenti o addomesticamenti fuori luogo, presentandosi con tutte le sue caratteristiche medicali e di sicurezza, ma ben integrate con un contenitore architettonico curato, stimolante, orientativo, accogliente, rassicurante, insomma non solo un ospedale, ma un bell’ospedale che si presenti con l’identità di “ospedale moderno”. La cura per la qualità ambientale rappresenterà palesemente i valori nascosti della struttura (l’apparecchiatura medicale di ultima generazione, la competenza dei medici, la sensibilità del personale tutto, eccetera), faciliterà il processo di familiarizzazione, trasmetterà una gradevole sensazione di accoglienza, di attenzione e saprà presentarsi come un luogo che garantisce opportunità di cura e guarigione nel quale non ci si perde e non si viene dimenticati.
Appendice
Giulio Bertagna
Dopo aver collaborato con il Laboratorio Colore del Politecnico di Milano, dove progetta configurazioni cromatiche didattiche per l’atrio e l’aula di percettologia, inizia l’esperienza di docenza in Colore e Percezione presso la Scuola Politecnica di Design (SPD Milano) e presso l’Istituto Superiore di Design e Architettura (ISAD Milano). È poi professore incaricato presso la Scuola del Design, Dipartimento Indaco del Politecnico di Milano per gli A.A. 2002-2003, 2003-2004, 2004-2005, 2005-2006, 2006-2007, 2007-2008. Relatore in Commissione di Laurea, presieduta da Andrea Branzi, per due tesi di laurea specialistica in Design degli interni aventi come tema il progetto percettivo-cromatico nell’ambito delle scuole materne e delle navi traghetto a lunga percorrenza.
È docente per diversi corsi sul colore e master presso PoliDesign (Consorzio Universitario del Politecnico di Milano) e visiting professor presso l’Accademia Jana Matejki di Cracovia e l’Istituto di Disegno Industriale Wzornictwa Przemyslowego di Varsavia. Formatore degli architetti iscritti all’ANAB (Associazione Nazionale Architettura Bioecologica). Docente nelle tre edizioni del master Color Design & Technology di PoliDesign (Politecnico di Milano) e tutt’ora presente nella faculty. Membro fondatore del Gruppo del Colore – Associazione Italiana Colore.