Premessa
Con il termine minimalismo s’intende, in sintesi, uno stile di vita improntato sul concetto di eliminare il superfluo. Avere, possedere solo l’indispensabile per una vita più felice e anche ecologica. Il minimalismo è una corrente artistico-filosofica. Questo non gli toglie nulla, ma è bene sottolineare che arriva dagli Stati Uniti, tra gli anni ’60 e ’70 (proprio dove e quando si stavano sviluppando le neuroscienze) a opera di un filosofo dell’arte inglese, Richard Wollheim. Un movimento che ha avuto illustri adesioni e che ha contaminato anche gli ambiti linguistico, politico, musicale, architettonico, del design in generale e del fashion design. Dunque mi guarderò bene dal parlarne riduttivamente o, peggio, dal contestarlo. Qui si parla, alla fine, di qualcosa che ha a che fare con la filosofia, con scelte di vita, peraltro sorrette da un concetto affatto criticabile, anzi pienamente condivisibile e, come già detto, in linea con le tendenze ecologiste attuali e freno, per scelta consapevole, del consumismo.
Tra i testimonial più significativi, mi vengono in mente Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay e Mies Van Der Rohe che coniò il famoso motto less is more, poi usato anche in ambiti diversi da quello dell’architettura. Per una questione di datazione di attività, quest’ultimo, morto nel 1969 a 83 anni, lo si può ritenere il precursore del movimento minimalista o, se volete, della filosofia minimalista. Questo a sottolineare quanto potere ha sempre avuto l’architettura sui comportamenti e stili di vita di intere società.
Un altro fatto interessante di quel periodo (1920-1930 circa) in cui nacque il movimento moderno è che quasi in contemporanea, si imponeva l’art déco, uno stile che si potrebbe definire come il sintomo del passaggio dall’abbondanza decorativa del barocco al design, che era già nato, per altro con il Bauhaus di Weimar.
Questa grande rivoluzione avvenne anche grazie alla spinta della seconda rivoluzione industriale (1870. Elettricità, prodotti chimici, petrolio) ed è altra cosa interessante il fatto che la terza rivoluzione industriale viene fatta partire dal 1970 (elettronica, telecomunicazioni, informatica), fgli anni in cui le neuroscienze stavano sviluppandosi strutturalmente e in cui, appunto, nacque il minimalismo.
Il minimalismo dal punto di vista del percettologo
Parlando di minimalismo ed essendo entrato nel mondo del design negli anni in cui spopolavano le fotografie degli interni e di oggetti del design emergente di Aldo Ballo, ricordo che quello che mi colpiva era l’estrema “pulizia” delle scene. Non che fotografasse ambienti arredati secondo criteri minimalisti, ma certamente tutto doveva risultare ben leggibile, senza elementi distraenti, superflui o ancora peggio estremamente personalizzati. Imparai poi a mie spese la difficoltà nel fare fotografie di interni. Le prime volte che finivo un appartamento che avevo ristrutturato e per il quale avevo disegnato tutti i mobili, compresi quelli della cucina, potevo accedere liberamente in quanto ancora “cantiere” e di solito era il momento di chiusura lavoro per la falegnameria. Però c’erano ancora le “velature” di un cantiere e mancavano i libri, i quadri, le suppellettili, insomma quel minimo di vissuto. Rimandavo, chiedendo al cliente di inserire le sue cose e di chiamarmi per fare un bilancio sulle funzionalità della casa. Ma la macchina fotografica, già pronta con le ottiche e la pellicola giusta per gli interni, rimaneva nella borsa. La personalizzazione dava pessimi risultati, soprattutto da un punto di vista fotografico. Sarebbero venute fuori foto “invendibili” dal punto di vista delle referenze. Dopo le prime esperienze, abbandonai l’idea di creare un book di realizzazioni di interni.
Ciò che rovinava le foto era di solito il superfluo. Un superfluo che però rappresentava, a tutti gli effetti, i padroni di casa, la loro storia, la loro cultura, il loro vissuto.
Come spesso accade nelle rivoluzioni attuate dai così detti movimenti, si esagera con l’ortodossia. Da troppo “tanto” a troppo “niente”.
Vorrei soffermarmi un attimo sul concetto di superfluo. Viene definito come eccedente i limiti della necessità, inutile, ingiustificato. La domanda spontanea è: chi decide cosa mi serve, cosa è inutile per me?
Nella mia ricerca sul minimalismo negli interni, quindi parliamo della casa, dell’arredamento, ho letto che i libri, se servono, sì, ci possono stare (ovviamente nell’apposito scaffale o libreria così detta). Bene. Spero però che possano rimanere nella libreria anche dopo essere stati letti, magari nonostante si sia certi che non li rileggeremmo mai più. Oppure al macero? Si possono comprare libri che ci piacciono, salvo poi, per varie ragioni, non leggerli?
Perché di fronte a certi grossi volumi architettonici, chiamati volgarmente palazzoni seppure (pochi) progettati con competenza e buon gusto rimaniamo attoniti e ci piace fotografare i borghi storici con le case in pietra o in legno o quelle decorate della Riviera Ligure?
Temo che, sempre parlando di interni, si consideri troppo l’ergonomia antropometrica e poco o nulla l’ergonomia delle emozioni, eppure viviamo di emozioni! Se io, scivolando nel kitsch, durante una gita particolarmente piacevole a Pisa, decido di acquistare una piccola torre pendente e di piazzarla nella libreria o su di un mobile di casa, sapendo bene che ogni volta che la vedo ricorderò quel tempo, quelle sensazioni di benessere o una persona in quel momento molto vicina a me, avrò compiuto un atto riprovevole e di pessimo gusto o avrò dato il giusto spazio alle mie emozioni, sentimenti, ricordi?
Il minimalismo invoca spazi, forme, funzioni ridotte al necessario, senza decorazioni e possibilmente senza quegli elementi “personalizzabili” e inequivocabilmente portatori di rumore visivo, come scaffali per libri e oggetti che non siano utili. Quadri con diverse tecniche e cornici, poster, suppellettili, complementi di arredo, lampade da terra e da tavolo, ricordi di viaggio, coppe di vittorie, diplomi di appartenenze e riconoscimenti incorniciati, cornici con foto, oggetti di antiquariato, il vecchio violino del bisnonno musicista; tutta roba inutile. Le pareti spoglie, anche se rifinite magistralmente, aiutano all’introspezione, alla meditazione; dicono. Ma io ho sempre visto chi medita, in esterno, in mezzo alla natura. Quando si è immersi nell’ambiente naturale, anche senza mettersi in meditazione, si sta bene, si “pensa” bene. Se ci si passeggia, si pensa ancora meglio, il cervello si sente più libero di portarci al nostro interno, in introspezione.
Non ci si pensa mai, e forse non si sa come funziona il nostro cervello, ma basta ragionarci un poco per renderci conto di quanto lavoro faccia e pure diversificato. Per camminare in buon equilibrio con un passo stabile, senza inciampare, seguendo una stradina o un sentiero, decidendo se prendere a destra o a sinistra, rallentare se ci sono ostacoli o persone senza distoglierci dai nostri pensieri è già un gran lavoro. Se osserviamo (perché lo osserviamo eccome) l’ambiente circostante, vedremo erba, siepi, alberi frondosi o dalle complesse ramificazioni. Per fare questo, il nostro apparato visuo-percettivo (che poi è sempre il cervello) fa un lavoro colossale, attivando tutti i neuroni disponibili per leggere le forme e i colori “foglia per foglia” tutte diverse anche se simili, ma anche per farci sentire la temperatura, l’alito di brezza, gli odori e i profumi., il rumore dei nostri passi, del traffico lontano, di un treno che passa, di bambini che giocano, di dialoghi incomprensibili di persone…una quantità di stimoli incalcolabile, eppure ci sentiamo rilassati. Questo perché il nostro cervello, il nostro sistema è predisposto per questo e ne ha bisogno, non tanto del passeggiare di per sé, ma di molti stimoli. Ci pensa lui a elidere quelli che ritiene non significativi.
Ora chiedo: come può accadere tutto ciò in casa, osservando la parete vuota di fronte al divano?
Soddisfatti quei parametri estetici e funzionali necessari per un buon risultato vivibile, preferisco una casa piena di roba anche inutile, bene in vista, ordinata e alla polvere, dove chi vi vive veda se stesso, dove l’ospite legga lo stile, il carattere, la cultura, quasi il pensiero intimo dei padroni di casa. Una specie di emporio del vissuto e del presente, quasi un Vittoriale dannunziano dove il superfluo testimonia il suo essere necessario, soddisfacendo dunque necessità visuo–percettive e psicologiche. Mica niente.
Non voglio con questo quaderno condannare il minimalismo. Da designer “di vecchia scuola” mi piace nella sua concezione che rispecchia perfettamente quella del design “puro”, ma ho ritenuto utile affrontare l’argomento per invitare a evitare gli “eccessi di tendenza”.
Non sono d’accordo che con l’osservatore, in un interno, rimangano a dialogare solo “vuoti materici”, che le tinte non esistano, che i colori si esprimano solo con acromatici. Una deprivazione sensoriale che si autocelebra in un contenitore raffinato nella sua purezza architettonica che accoglie tutti e nessuno, libera e narcisa nella sua asetticità stilistica, nella sua vocazione di showroom pronto ad esaltare attori che vi sfilino, nella casa di nessuno.
Giulio Bertagna ha scritto molti articoli sul colore, diverse dispense universitarie e tre libri. Seguendo la sua vocazione di divulgatore, ha deciso di creare questi QUADERNI dove liberamente raccontare quel mondo magico, infinito, complesso e affascinante che è il colore, unitamente alla percezione cognitiva.
Giulio Bertagna ha scritto molti articoli sul colore, diverse dispense universitarie e tre libri. Seguendo la sua vocazione di divulgatore, ha deciso di creare questi QUADERNI dove liberamente raccontare quel mondo magico, infinito, complesso e affascinante che è il colore, unitamente alla percezione cognitiva.
Giulio Bertagna, Paola Ivaldi (2000). Nerùs e Corvùs alla scoperta del Colore. Genova: Sagep Libri & Comunicazione
Giulio Bertagna, Aldo Bottoli (2009). Perception Design. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore
Giulio Bertagna, Aldo Bottoli (2013). Scienza del Colore per il Design. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore