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Il problema dell’umanizzazione ospedaliera

Il distinguo: l'umanizzazione ospedaliera è una medaglia a due facce. I tentativi e gli approcci sbagliati. Che fare?

Per prima cosa è bene vedere come venga definita l’umanizzazione ospedaliera. Cercando su Internet:

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Fonte: Ministero della salute.

L’umanizzazione – intesa come impegno a rendere i luoghi di assistenza e i programmi diagnostici terapeutici orientati quanto più possibile alla persona, considerata nella sua interezza fisica, sociale e psicologica – è un elemento essenziale per garantire la qualità dell’assistenza.12 dic 2022

E anche:

Fonte: aboutscience.eu

L’umanizzazione delle cure si basa sul paradigma olistico. Il termine olismo deriva dalla parola greca holos (όλος), totalità, che costituisce la base semantica del termine moderno “olismo”.26 apr 2020

Come umanizzare le cure e quindi l’assistenza?

Proviamo a mettere in sequenza alcuni possibili passi da fare:

  1. informazione corretta e puntuale a pazienti e caregiver familiari;
  2. formazione professionale sanitaria ad hoc;
  3. campagne sociali;
  4. promozione civica sulla prevenzione;
  5. condivisione buone pratiche;
  6. monitoraggio dei processi e risultati.

27 ago 2018

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Invito chi mi sta leggendo a cercare su Internet altre definizioni-guida.

Quelle che ho riportato evidenziano un approccio olistico nell’attuazione dell’umanizzazione. Ma vediamo intanto chi è stato il primo a promuovere questo virtuoso processo di relazione e perché, considerando l’umanizzazione come una medaglia. Su di una faccia l’“umanizzazione relazionale” e sull’altra “l’umanizzazione ambientale”.

Nel 1981 Fra Pierluigi Marchesi, priore generale del Fatebenefratelli, teorizzava sulla funzione di un ospedale “umanizzato”. Il concetto di umanizzazione riguardava la relazione tra curante e curato, ovvero tra medico e paziente, da lui ritenuto evidentemente carente in umanità. Intanto stupisce che quarant’anni fa, il comportamento dei medici nei confronti dei pazienti non fosse standardizzato istituzionalmente su una certa parità di ruolo (umanizzazione relazionale). Come ancora oggi sembra paradossale sentire che un certo reparto di un certo policlinico modernissimo, costruito da pochi anni, abbia necessità di essere umanizzato (umanizzazione ambientale), inducendo all’idea che si costruiscano ospedali disumani.

La prima faccia, quella considerata da Fra Marchesi, come già scritto, riguarda l’aspetto umano. Salve le sensibilità ed empatia di qualche curante, risulta evidente che l’atteggiamento dominante dei medici fosse in quegli anni (come nei precedenti) impositivo, impietoso, severo, rigido e intransigente, gentilmente fermo nei confronti dei malati ricoverati.

Il paziente veniva informato della diagnosi, terapia decisa e prognosi in modo sbrigativo, superficiale e senza alternative possibili alle decisioni prese dallo staff del primario. Spesso, in casi di gravi malattie, l’informazione veniva sbrigata con i soli parenti più stretti, consigliando loro di tenere il congiunto all’oscuro di quella gravità e dei possibili esiti negativi.

Il processo di umanizzazione relazionale ha stabilito diritti e doveri del medico e del malato:

“Doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.” (Fonte: humanitas.it)

Si legge “salute psico-fisica” che, evidentemente, prende finalmente in considerazione l’aspetto psicologico oltre che quello prettamente fisico. Il paziente non è più un essere malato del quale ignorare lo stato critico emozionale nel quale si trova e con il quale non è conveniente instaurare un dialogo solidale, comprensivo, ma una persona con un vissuto, affetti, lavoro, sentimenti, sicuramente paura per il suo futuro e desiderio di essere edotto del proprio male, delle cure previste e rassicurato. C’è un Tribunale dei diritti del malato e una Carta europea dei diritti del malato.

Insomma possiamo affermare che l’umanizzazione della relazione curante-curato, sia già da anni in attuazione e stia migliorando sempre di più non tanto per regolamenti interni, quanto per una sempre più diffusa sensibilità e consapevolezza di ruolo di medici, infermieri e oss.

Ma ora veniamo alla seconda faccia della “medaglia umanizzazione”; il vero focus di questo Quaderno.

LETTERA AI PARTECIPANTI ALL’ASSEMBLEA DI ROMA

Fra Marchesi (26 Gennaio – 4 Febbraio 1981)

“Ed ecco il secondo fattore di crisi per la persona malata, e cioè l’interrogativo: le persone che si occupano di me, l’ospedale, saranno capaci di curarsi di me e di guarirmi?

Per il malato l’ospedale non è il bar, il cinema, lo stadio: è il luogo nel quale si può morire, si può non essere curati bene, si può essere trascurati. E’ noto a tutti che per certe persone l’ospedale è il fattore patogeno per eccellenza. Pensiamo agli anziani che vivono in piccoli nuclei familiari, a contatto con le piccole comodità ed abi­tudini, che muoiono o si spengono psico­logicamente quando si trovano in un am­biente così diverso, così assurdo rispetto al loro modo consueto di vivere. Allora: è l’uomo che si deve adattare all’ospedale o l’ospedale che si deve adattare all’uomo? Da anni scopro una cronica attitudine nei religiosi a non considerare lo sconvolgimen­to fisico ed emotivo che rappresenta per il malato l’entrata in ospedale, proprio per­ché per i religiosi (n.d.r. i medici) l’ospedale è un ambiente familiare, è il loro ambiente, sono abituati ad esso.”

E ancora:

“L’Ospedale disumanizzato e disumaniz­zante non sfugge a un duplice destino: di­ventare carcere o azienda, anche se mo­derna. Il dizionario dà la seguente defini­zione di carcere: « Luogo in cui vengono rinchiuse le persone private della libertà personale per ordine dell’autorità compe­tente». Negli ospedali, nei nostri ospedali l’autorità competente è il medico che sug­gerisce il ricovero al malato, il quale può essere letteralmente rinchiuso, confinato e privato della sua libertà personale.

La macchina della salute lo confina in sala d’attesa: egli deve consegnare ai me­dici, agli infermieri e ahimé!, ai religiosi (n.d.r.: medici), il suo fegato, il suo cuore, le sue gambe. « Ci pensiamo noi — gli dicono — lei non deve interferire nel corso dei lavori, se ne stia buono, non dia fastidio, non disturbi. Lasci fare.. ». Insomma, deve mettersi da parte!

Così l’uomo viene spogliato non solo dei suoi abiti, ma della sua concretezza – quest’uomo qui, con questi problemi, con questa storia, in questa situazione – del suo essere soggetto, e gli si fa indossare il pigiama del caso clinico, dell’organo ma­lato.

Penso a certi manicomi del passato, ma anche del presente, penso ad orari di visita addirittura pazzeschi per i parenti, penso alla spoliazione del malato del diritto al­l’informazione e alla propria identificazione personale. Penso agli spazi nei quali, in pi­giama, il malato vaga nell’ospedale, pro­prio come un carcerato. E noi non ci accor­giamo di essere carcerieri soprattutto quan­do utilizziamo il nostro potere, le nostre comunicazioni, per dare ordini, per rendere ancora più deboli le persone, per rimpic­ciolirle.”

In sintesi il nostro Fra Marchesi, scriveva che riteneva inutili gli abbellimenti dei reparti ospedalieri, la modernità ostentata dei nuovi ospedali-azienda, ancora stante un’evidente criticità della relazione tra medici e ricoverati. Prioritario problema da risolvere con il massimo impegno morale.

Ora, pur considerando che Fra Pierluigi Marchesi era un frate ospedaliero, che le strutture ospedaliere dei frati erano nate per aiutare i più poveri, che l’idea di marketing aziendale non era certo nelle sue aspirazioni e indicazioni, tornando a leggere i virgolettati qui sopra, si noteranno parole da me sottolineate per evidenziare riferimenti ad elementi architettonici; la stessa parola “ospedale” non ci porta immediatamente a un medico gentile umano e aperto al dialogo, ma a una struttura architettonica grande, complessa, labirintica e piena di persone presenti a vario titolo. Fra Marchesi fa spesso riferimento a luoghi fisici.

È ormai consolidato che le qualità ambientali di un luogo (configurazione degli spazi, facile orientamento, pulizia, ordine, materiali ben assemblati, odori gradevoli, suoni non invasivi, illuminazione accogliente, eccetera) favoriscano le relazioni umane che vi si esplicano. Non solo; nel caso degli ospedali, da tempo ormai si parla di ambiente terapeutico o protesico coadiuvante la guarigione e comunque un buono stato psicologico di chi vi è ricoverato, ma anche di chi vi lavora.

Insomma, viene quasi per logica che essere pazienti, parenti o accompagnatori, medici e paramedici all’interno di una struttura accogliente, amicale, che possa essere percepita come pulita, ben organizzata, luminosa, colorata, eccetera possa essere di grande importanza sull’equilibrio psicologico di tutti. Come è logico pensare che tutte le attività che vi si svolgono abbiano migliore riuscita. 

Bisogna considerare anche che gli interventi di umanizzazione ambientale di un ospedale devono comprendere anche un sistema di segnaletica orientativa adiuvante quello istituzionale. Adiuvante proprio in quanto terapia delle carenze congenite di una cartellonistica spesso caotica in quanto onnicomprensiva che non riesce a evitare che le persone si perdano e, paradossalmente (confidatomi da un dirigente medico), anche il personale medico stesso entrato da poco in servizio. È stato rilevato che la perdita di tempo e la distrazione del personale medico nel dare indicazioni di percorso a chi lo chiede, comporta un costo in denaro considerevole.

Non si può non considerare l’aspetto del marketing ospedaliero. Ogni ospedale, ogni asl è competitor degli omologhi su tutto il territorio nazionale, soprattutto per quanto riguarda gli interventi chirurgici sui quali si può vantare attrezzatura aggiornata e tecnologicamente avanzata, nuove terapie e modalità di intervento. Certamente le apparenze curate della struttura architettonica, una buona sensazione di accoglienza e la facilità nel trovare il percorso giusto concorrono a distinguersi dagli altri.

Quali le iniziative fino a ora intraprese per rimediare a un’umanizzazione ambientale insufficiente?

Perché anche un ospedale nuovissimo non è umanizzato da un punto di vista ambientale?

La risposta alla prima domanda è a disposizione di chiunque si faccia un giro in un ospedale e si guardi intorno con un po’ di attenzione e spirito critico. Queste iniziative sono state prese dal personale interno del reparto, infatti è più facile trovare tentativi di umanizzazione all’interno di un reparto, che nel connettivo generale (atri e corridoi fuori reparto). Iniziative come un vaso di fiori su una mensola, quadri con poster o stampe inseriti in antigieniche cornici, la richiesta di un “colore allegro” sulle pareti dei corridoi e delle salette di attesa, giusto per non avere il classico bianco.

Iniziative che la direzione sanitaria non può che approvare, accontentando forse più il desiderio di infermieri e oss e qualche medico di lavorare in un ambiente “più simpatico”, che per la dichiarata sensibilità verso i pazienti. È già qualcosa, ma il risultato appare spesso come la goffa sovrapposizione di elementi domestici o alberghieri a un contenitore architettonico squallido e deprimente. Spiace essere così spietato, ma i risultati, salvo rarissimi casi, non possono essere che deludenti, perché si può pretendere che un medico faccia bene il suo lavoro, ma non anche quello di un designer.

Parallelamente, in qualche ospedale (non solo in Italia), si sono tentati interventi definibili come “migliorativi da un punto di vista estetico”, ma non sistemizzati nell’intero ospedale, con un risultato di non poter loro attribuire valenza identitaria della struttura. In questa faticosa salita verso l’ideale metodologia d’intervento, i maggiori sforzi (anche economici) sono stati dedicati ad alcuni reparti degli ospedali pediatrici. Mancando però di metodo e il riferirsi ad esperti, l’approccio è stato di tipo “istintivo-parentale”, cercando di dare ad ambienti di diagnosi e terapia dove sono presenti macchinari che possono incutere paura (per es. la TAC), l’aspetto giocoso di un luna-park. Un mascheramento che certo ha effetti sdrammatizzanti ed è sicuramente meglio della inquietante freddezza dei macchinari, ma che, proprio in quanto evidente mascheramento, può essere percepito da molti bambini come un inganno. Temendo che il bambino, che non è da considerarsi proprio uno sprovveduto, possa avvertire questo inganno, sono più orientato ad offrirgli un luogo palesemente destinato a curare, pieno di stimoli visivi colorati che possano stimolare la sua fantasia, senza tirare in ballo la Walt Disney. Ricordiamoci che abbiamo a che fare con una società sempre più multietnica, soprattutto nei pediatrici italiani d’eccellenza, nei quali affluiscono bambini da tutto il mondo. L’arte, compresa quella dei fumetti e dei film per bambini rischia di avere grossi limiti di intersoggettività nel gradimento. Dunque è meglio lavorare sul design grafico stimolante percettivamente, ma che non rappresenti nulla. Sarà la fantasia del bambino a “prendere in mano i cubetti del Lego per creare qualcosa di suo”.

Seconda domanda: Perché anche un ospedale nuovissimo non è umanizzato da un punto di vista ambientale?

Quando un ospedale viene costruito e si inizia a renderlo vivibile e utilizzabile, qualcuno deve pensare a che pavimentazioni inserire, ai mancorrenti batti-barella, agli angolari di protezione degli spigoli, ai rivestimenti di protezione sulle pareti, quelli che sembrano alti battiscopa o a volte arrivano all’altezza dei mancorrenti (le barelle fanno danni inimmaginabili); poi si tratta di decidere le porte, quelle non tagliafuoco o REI. Il tutto magari considerando a malapena la destinazione d’uso dei vari reparti. Scelte fatte solitamente dal RUP, lavorando sulle planimetrie dei vari livelli del policlinico ancora cantiere con il cataloghi delle aziende fornitrici delle pavimentazioni e dei vari elementi già citati.

Il RUP di solito cerca di differenziare i vari piani, gli interni dei reparti, gli atri, l’uno dall’altro, disponendo però di una limitata offerta cromatica, che lo costringerà ad accostamenti tragici, iniziando quindi, suo malgrado e paradossalmente, un’opera di disumanizzazione congenita degli interni della struttura, realizzando disorientamento e rumore visivo-cromatico,  per l’assenza di dati e di un teorema che preveda la messa in coerenza percettiva di tutto il sistema.

Non è una colpa; è la logica inevitabile e tragica conseguenza dei laccioli degli appalti e sub-appalti e mancanza di competenza negli aspetti percettivi o sottovalutazione degli stessi o ignoranza della loro necessità. Forse l’indisponibilità a creare nuova spesa chiedendo una consulenza ad hoc ad esperti esterni. Nessuno si è mai fatto carico di studiarne le complessità. Però sia le indicazioni ministeriali che Asl richiedono queste attenzioni.

ALLORA QUAL È L’APPROCCIO CORRETTO?

Essendo che sono quarant’anni che studio e mi occupo di colore e percezione, con anni di partecipazione a convegni, con articoli su riviste specializzate e quotidiani, con docenza universitaria e con gli ultimi vent’anni in gran parte dedicati a progetti e realizzazioni per il mondo della sanità e dell’assistenza, potrei affermare che l’approccio più corretto sia il mio. Ma ho scritto quanto sopra come battuta. Posso però affermare di essermi reso conto, in tanti anni di studio e ricerca applicata, della necessità di una formazione specifica (dedicata agli interior designer) che preveda una buona cultura nelle neuroscienze. In quanto progettisti, è bene ricordare che tutto ciò che realizziamo e proponiamo alla vista del prossimo, verrà interpretato dall’area cognitiva dei nostri percettori e influirà sul loro comportamento e atteggiamento mentale. Da qui non si scappa. Ora pensate a quanto debba essere delicato, sapiente e “chirurgico” (percettivamente) un intervento di design destinato alla collettività che circola dentro a un ospedale. Un po’ di colore fa allegria! È vero, ma l’intervento è pensato come decorazione grafica fine a sé stessa o peggio come sola tinteggiatura delle pareti in un certo colore, rischia anche di essere controproducente. Dunque si può fare di meglio, concependo questi interventi di umanizzazione ambientale ospedaliera, non solo come abbellimenti estetici, ma come veri e propri atti di progetto percettivo, perché è quella è la loro vera destinazione.

CONCLUSIONI

Le mie realizzazioni, piacciano o meno, sono frutto di anni di studio ed esperienze sul campo. Sono design. Sono apparentemente semplici e sono realmente economiche (come realizzazione fisica), perché sono progetto, design. Possono far pensare “beh, che ci vuole; questo lo so fare anch’io!” Sì, si possono copiare, ci si può ispirare, ma sarebbe meglio sapersela cavare da soli e inventare qualcosa di diverso e magari più evoluto ed efficace, ma per questo, come in tutte le discipline specialistiche, è indispensabile una formazione specifica, altrimenti si rimarrà sempre nell’approccio empirico senza basi di partenza, sulla pelle di chi lavora negli ospedali e dei tanti che, loro malgrado, ci si ritroveranno a soggiornare con un unico desiderio in testa: uscirne il prima possibile.

Giulio Bertagna