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Umanizzazione ospedali – Wayfinding design 2 – Una questione di pelle 

Le basi culturali di questo ambito progettuale

Un tema, quello dell’umanizzazione degli ospedali e dello strettamente connesso wayfinding design, già affrontato nei precedenti miei Quaderni. Come forse già scritto, il wayfinding design è nato negli anni ’60 nel mondo della grafica dedicata alla segnaletica orientativa. Questa data di nascita corrisponde, nemmeno a farlo apposta, a quella delle indagini neuroscientifiche strutturate. Facendo oggi un bilancio qualitativo, ho però notato che le varie esperienze sul campo, la ricerca applicata a encomiabile opera di Enti ospedalieri e locali con la partecipazione di tecnici e studiosi universitari, ha poco attinto, se non per nulla, dalle utili indicazioni ricavabili dallo studio delle neuroscienze. Forse per questo avevo parlato del wayfinding design come di una disciplina del progetto nata in anni recenti per soddisfare la sempre più sentita necessità di umanizzare le strutture ospedaliere. E’ in tempi recenti che le accademie di architettura e design si sono rese conto che il concetto di umanizzazione doveva per forza contenere e interagire con il wayfinding design in un tutt’uno progettuale, emancipando quest’ultimo dalla progettazione grafica e produzione segnaletica per integrarla in una più ampia visione che considerasse maggiormente indagini e aggiornate attenzioni su colore e percezione cognitiva; buoni presupposti, soddisfacente individuazione ed elencazione degli obbiettivi da raggiungere, ma con scarsi risultati nella pratica. Ho cercato, grazie a Internet, quale fossero i risultati più significativi raggiunti all’estero in quanto a realizzazioni concrete e operanti. Anche a seguito di questa indagine, ho notato una certa carenza. Sicuramente ho trovato interventi che in qualche “partizione” hanno centrato l’obiettivo, ma risultanti come spot scollegati da quello che invece avrebbe dovuto essere un sistema ben percepibile. Mi sono sembrate sperimentazioni a volte anche pregevoli, ma non generate da un approccio progettuale strutturato, ovvero derivante da una piattaforma culturale in grado di fornire parametri di riferimento. Ho cercato di capire la ragione di questa situazione, che mi ha ineluttabilmente portato di nuovo ad attribuire questi limiti alla mancanza di una cultura neuroscientifica. Il meccanismo è facile da comprendere. Se l’obbiettivo è quello di progettare non più soltanto sulle basi dell’ergonomia antropometrica, ma anche su quelle dell’ergonomia cognitiva, è chiaro che sia indispensabile sapere, anche in termini basici, come funzioni il sistema visuo-percettivo dell’essere umano e quali siano i processi intersoggettivi che, a un certo tipo di stimoli, portino a determinate interpretazioni e risposte emozionali e comportamentali.

Una questione di pelle

È una questione di pelle, di superfici da trattare. In un contenitore architettonico qual è un ospedale, il progettista dovrebbe chiedersi quali siano le superfici osservate della scena, in quali modalità e tempi vengano osservate e quali siano quelle più osservate e perché. Proviamo a categorizzare le superfici. 

Soffitti e controsoffitti

Non sono da sottovalutare perché corrispondono, in quanto a estensione, ai metri quadrati di calpestio (pavimenti). Alla loro apparenza estetica poco si pensa, come se non li osservasse nessuno e vengono risolti al risparmio, con un risultato di gloom, di vuoto. Uniche presenze le plafoniere per l’illuminazione, spesso fastidiosamente abbaglianti e spesso poste al centro per garantire una quantità di lux ripartita uniformemente; qualcosa di palesemente innaturale che tenta di riprodurre una situazione di “esterno naturale” che nessun animale o essere umano riterrebbe gradevole e accogliente. Un degente allettato con gli occhi in posizione basale, vede il soffitto. 

Pavimenti

I pavimenti sono deputati, al contrario dei soffitti di pari superficie, a raccogliere l’arredamento di accoglienza e cortesia, i letti di degenza e tutti i numerosi apparati medicali e di servizio mobili su ruote. Se fanno parte del connettivo di reparto, sono più sgombri dai succitati elementi; se del connettivo principale, vengono spesso utilizzati, con intarsi della pavimentazione resiliente, come segnaletica orientativa elementare, ovvero solo per evidenziare un percorso, ma senza ulteriori specifiche. Spesso tali “indicazioni” spariscono di colpo senza un aggancio indicativo successivo. Non si tiene conto della visione daltonica (specie se si usano diversi colori-guida) e del fatto che altre persone, che precedano l’utente, ne possano ostacolare la lettura. Alle pavimentazioni si affida quasi sempre un certo impatto cromatico, con l’intento di caratterizzare il reparto, il piano, quel certo nodo del connettivo. Queste decisioni vengono però prese senza considerare che tutte le successive scelte cromatiche ne verranno fortemente condizionate. Il fatto che vi siano “successive scelte cromatiche” denuncia la mancanza di un progetto dedicato. 

Pareti

Ho lasciato quest’ultima categoria per due ragioni. La prima è che la superficie totale delle pareti di una stanza, normalmente, sono il triplo della superficie del pavimento e il fatto che su queste superfici trovano collocazione porte, finestre, mobili, attrezzature di protezione, di sicurezza e segnaletiche. Tutto ciò le rende le più complesse da gestire, perché, spesso, la collocazione progressiva dei vari elementi di utilità, deve adattarsi a quelli già presenti. La seconda ragione è prettamente percettiva. Basta essere consapevoli di ciò che esploriamo con lo sguardo mentre navighiamo all’interno di qualsiasi struttura architettonica, per renderci conto che le superfici che più osserviamo sono proprio le pareti. Per non andare a sbattere, non mettere i piedi in fallo, “leggere” ciò che abbiamo sulla testa, è sufficiente la visione periferica, ma la nostra messa fuoco, la nostra attenzione è rivolta sempre alle pareti. 

La ricerca dell'orizzonte

L’orizzonte apparente per ogni essere umano rimane all’altezza degli occhi. È l’altezza prevalente dal terreno (circa 160 centimetri) sulla quale focalizziamo la nostra attenzione. La prima cosa che istintivamente facciamo entrando in un grande ambiente interno, in una stanza, in un corridoio, è quella di individuare l’orizzonte relativo, insomma il punto più lontano da noi oltre il quale lo sguardo non può proseguire. Questo atteggiamento visuo-percettivo è istintivo per questioni di sopravvivenza. In un batter d’occhio il soggetto si accerta di eventuali pericoli-vantaggi del luogo nel quale è entrato e questo rilevamento dei confini è necessario per la propria consapevolezza spaziale, comprendere le regole di comportamento che quel luogo impone tramite la sua affordance. Ogni volta quindi che superiamo un varco, una porta, ci troviamo di fronte a un nuovo orizzonte. Comprensibile quanto sia importante la segnaletica orientativa, soprattutto il ripetersi delle indicazioni, perché dopo ogni porta o varco, il nostro sistema cognitivo è costretto a ripetere le stesse analisi. In pratica, da un punto di vista del processo orientativo, ricominciamo daccapo. Uno dei problemi di un interno grande e articolato come quello di un ospedale, è quindi quello del succedersi di numerosi orizzonti. Nel percorrere un sentiero di montagna, anche passante attraverso un bosco, l’orizzonte apparente si modifica anch’esso, ma in modo coerente e sincronizzato con la nostra velocità, facendocelo apparire come un unico riferimento, sebbene in variazione continua. Questo aumenta la facilità di memorizzarne le caratteristiche, a tal punto da rendere riconoscibile il sentiero (e i suoi orizzonti progressivi) anche percorrendolo in senso opposto, dunque osservandolo al contrario. Le interruzioni di orizzonte e di scena di ogni spazio architettonico inceppano questo meccanismo percettivo di orientamento perché manca la progressività, ma anche perché le diverse scene che si presentano al soggetto (scena: tutto ciò che è osservabile dall’orizzonte al soggetto stesso) non sono affatto ricche di stimoli visivi, più o meno salienti, come l’ambiente naturale. L’essere umano non ha imparato a orientarsi tra bacheche, porte REI, estintori e quadri elettrici, pareti vuote e monotone, ma nelle foreste. Le pareti hanno quindi una duplice funzione comunicativa. Diventare paesaggio, memorizzabile e riconoscibile e strumento orientativo. Qui vale la pena di soffermarsi, ricordando l’invito già fatto: le pareti devono comunicare con la loro superficie.